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CEMENTO
MOO Gallery, Prato
13 ottobre – 12 dicembre 2016 a cura di Špela Zidar

La mostra CEMENTO riflette sulla necessità dell’uomo di costruire; ingegnarsi ed inventare per andare sempre più in alto, unire i materiali, cementarli insieme, inserendoli nel paesaggio portandovi sia i benefici urbanistici che gli svantaggi legati all’eccesiva cementificazione. Anche l’atto del costruire nel lavoro di Menicagli è sempre in relazione con l’ambiente circostante, che serve da contenitore alle sue sculture elastiche, permettendo loro di prendere forma.
Al MOO l’artista presenta un’installazione ambientale, costruita con materiali poveri, composta da pilastri di supporto rivestiti da mattonelle di recupero che costituiscono le solide fondamenta dalle quali cresce una scultura organica di listelli di legno che come un’esplosione riempie entrambi gli spazi della galleria.

Il punto di partenza dell’installazione sono i pilastri, apparentemente in cemento armato, nella società moderna il simbolo per eccellenza del costruire; dalla loro sommità fuoriescono ferri di richiamo sporgenti, che hanno ispirato l’artista durante i suoi viaggi nel sud Italia, e che rappresentano sia la futura possibilità di ulteriore sviluppo ed elevazione della struttura, sia il fallimento che ne ha fermato momentaneamente la crescita.
Vecchie e colorate mattonelle di recupero, di quelle trovate nelle case dopo i lavori di ristrutturazione, fungono da cassaforma durante la realizzazione dei pilastri. All’interno viene colato non del cemento, ma gesso e schiuma poliuretanica, ovvero materiali fragili che contrastano con l’apparente solidità del pilastro. La scelta di utilizzare elementi di rivestimento come le mattonelle impiegandole come supporto strutturale, converte i rapporti tra contenuto e contenitore, inoltre le decorazioni e i pattern trovati sulle vecchie mattonelle risultano spesso familiari, in grado di innescare ricordi e relazioni nello spettatore, spaesato dal vedere un materiale appartenente alla sua storia o alla sua quotidianità, all’interno dello spazio espositivo.
Questo trompe l’oeil del materiale, sia nella fabbricazione dei pilastri che nel loro rivestimento, è utilizzato con l’intento di rivelare l’idea di una costruzione stabile, con i suoi riferimenti ad elementi strutturali, ma allo stesso tempo precaria e dipendente dal contesto che la ospita.
L’artista così sceglie di completare l’installazione con la struttura aerea dalle forme morbide e ondulate dei listelli di legno che, uniti da fascette auto bloccanti, si elevano dai pilastri circoscrivendo e accarezzando lo spazio. Assumendo forme sinuose e delicate, sembrano sconfiggere la forza di gravità e fluttuare al suo interno in un equilibrio instabile, ma resistente. La progettualità minima permette all’artista di formare l’opera mentre la crea, facendola sembrare una forma vivente cresciuta all’interno dello spazio, fuggita al controllo sia dell’artista che dello spettatore. La scultura, ormai indipendente, riempie e penetra liberamente gli spazi che la contengono, seguendo regole e ritmi apparentemente propri.

Tutto rimane essenziale, continuamente labile e in ridefinizione, in costante bilico tra lo stabile e il precario, tra le forme geometriche e quelle organiche. Un’opera, forte nella sua possibilità di adattamento e allo stesso tempo fragile nel suo essere effimera, che dipende quasi completamente dal suo contenitore architettonico, e che permette all’artista di indagare sul rapporto simbiotico tra uomo, opera e ambiente, consentendo allo spettatore la rilettura del suo rapporto con lo spazio.


MECCANO 

Egg Gallery, Livorno, Aprile 2016

A cura di Martino Margheri

I«Per lavorare servono gli strumenti giusti!», una frase che riaffiora dall’adolescenza quando spesso mi veniva ripetuto che per studiare avrei dovuto tenere sulla scrivania, di fianco ai libri che leggevo, un dizionario. «Quando trovi una parola che non conosci cercala sul dizionario.» Ancora oggi mi capita di trovare qualche parola che non conosco, ma oggigiorno il dizionario è su un server, chissà dove, e con un search e uno scroll la parola è trovata, letta, e forse, memorizzata. L’esigenza non è cambiata dal 98’, è cambiata però la forma dello strumento e soprattutto la velocità con cui riesco a utilizzarlo. Ampliando l’angolo di visione le necessità rimangono sempre le stesse: comunicare, conoscere, scambiare, produrre, cambiano però i modi in cui riusciamo a rispondere a queste esigenze; la tecnica arriva progressivamente in soccorso, rendendo tutto più veloce, facile, leggero, pratico e accessibile.

II La tecnica ha fatto progressi tali da rimuovere dal nostro immaginario collettivo alcuni oggetti o strumenti da lavoro, che adesso possiamo scoprire solo nei musei di antropologia. La fine di questi oggetti non è coincida con la fine del lavoro, o dell’esigenza produttiva, anzi, i nuovi strumenti di lavoro permettono di raggiungere nuovi standard di produttività, rapidità ed efficienza. Nell’universo uomo-lavoro c’è sempre stato qualcuno che ha osservato con diffidenza il cambiamento dei processi e la trasformazione degli strumenti: l’introduzione della meccanizzazione, la digitalizzazione, la perdita di un contatto diretto con il fare. Questa resistenza non è una forma di passatismo, deriva piuttosto dal timore di subire una perdita, soprattutto in termini economici; la paura atavica di essere rimpiazzati. Mi torna in mente un testo profetico «Quando questo circuito imparerà a fare il tuo lavoro, tu cosa farai?». Le soluzioni potrebbero essere molteplici: imparo a farlo meglio e mi riprendo ciò che mi è stato sottratto, cambio lavoro, oppure la più drastica, distruggo il circuito, così da non avere un altro concorrente sul mercato.

 III Franco Menicagli non è un luddista, non incendia i telai e tantomeno rifiuta la tecnologia, ama però andare alla radice della pratica artistica seguendo un approccio arcaico, oggi diremmo performativo, dove il lavoro con le mani -impreciso, veloce, vivo- riveste un ruolo fondamentale. La mostra MECCANO è un racconto per capitoli che trova i suoi primi fondamenti nelle decorazioni medievali delle arti e mestieri dove gli artigiani, scalpellini, orafi erano ritratti con i propri strumenti di lavoro, intenti nelle loro attività manuali. Ogni arte e mestiere era, infatti, contrassegnata da un’effige-azione-oggetto che la contraddistingueva immediatamente dalle altre. Una corrispondenza precisa chiara e narrativa che abbiamo perso nel corso della storia. Oggi quali oggetti useremmo per ritrarre un artista? Menicagli non risponde in maniera enciclopedica, propone la sua versione: un compendio di strumenti di lavoro, suggeriti, espliciti, funzionali e paradossali.

IV Fascette sparpagliate a terra, residuo materiale di opere che non esistono più, ormai inutilizzabili nella loro funzione originaria si trasformano in un tappeto sonoro che infrange il silenzio religioso della contemplazione intellettuale. L’invito è a entrare, calpestare e arrossire. Le due sculture sghembe da cui prende il nome la mostra, realizzate con materiali entrati a far parte del vocabolario dell’artista in maniera fortuita, sono la traccia di un lavoro veloce, carico di tensioni ed equilibri instabili. Sculture destinate a non durare, ogni volta diverse. Menicagli riparte sempre dall’inizio assecondando un principio antieconomico: nuova mostra, nuovo lavoro, nuove energie investite, altro tempo speso. Il video Intaglio ci riporta nuovamente al fulcro della questione, l’artista all’opera con gli strumenti del proprio lavoro. Strumenti antimoderni, primari, forse inadeguati, per un lavoro paradossale. Il senza titolo costituito da tre pannelli in gesso è l’ultimo capitolo della storia, -forse l’epilogo- il protagonista di cui abbiamo parlato fin dall’inizio, finalmente appare nelle sue innumerevoli forme. Possiamo vedere cosa l’artista tiene nel suo studio, come l’organizza; possiamo ipotizzarne l’uso, ma ne siamo tenuti a distanza. Gli strumenti emergono nella loro specificità materiale, se ne possono scorgere anche i segni d’usura; rilievo dopo rilievo, diventa leggibile un’epigrafe e si chiude il cerchio. Un omaggio a quello che è stato, il ricordo nitido di qualcosa di caro che l’artista ha deciso di lasciare morire.


A CHI NON PIACE GUARDARE IL CIELO?

Installazione site specific per il Cortile di Palazzo Strozzi
16.10-16.11.2014 Un progetto del Centro di Cultura Contemporanea Strozzina, Firenze

A cura di Martino Margheri

incontro / unione / via d’uscita

Franco Menicagli lavora da anni sul concetto di anti-monumentalità. Le sue sculture o installazioni ambientali, realizzate attraverso l’ibridazione di oggetti di recupero e materiali poveri, rivelano un’attenzione verso costruzioni precarie capaci di esprimere tensioni fisiche e relazioni simboliche con luoghi e persone. Le fragili impalcature tenute insieme da nastro adesivo diventano la protesi di una scultura da restaurare, spostando l’attenzione sul rapporto con la storia e il valore della conservazione. Le superfici in cartone corrispondenti alla pianta di una stanza, poggiate su un supporto verticale, trasformano la bidimensionalità di uno spazio calpestabile in un volume soggetto alla forza di gravità; i frammenti di mobili – uniti da listelli di legno e fascette da imballaggio – creano un dialogo tra forme rigide e fluide, generando esplosioni di volumi vuoti che invadono lo spazio, innescando nuove relazioni ambientali.

Pur nella loro diversità formale, tutti i lavori di Menicagli sono percorsi da un carattere effimero e un senso di energia compressa: le sue opere sono soggette a costanti trasformazioni che ne mettono in dubbio la capacità di resistere al trascorrere del tempo. I suoi interventi nascono dopo una lunga elaborazione e una veloce realizzazione, in cui l’azione del costruire assume un forte carattere gestuale e performativo. Il processo di realizzazione di un’opera parte dallo studio delle proprietà di materiali poveri e dalle possibili trasformazioni estetiche degli oggetti comuni, passa attraverso un’analisi del contesto espositivo, per arrivare a una risoluzione nella fase di esecuzione, in cui l’immediatezza della realizzazione, l’imprevisto e l’errore prendono il sopravvento sull’aspetto più progettuale.

L’installazione site specific sviluppata per Palazzo Strozzi, A chi non piace guardare il cielo?, sintetizza un percorso che si arricchisce di un rinnovato carattere architettonico, trasformando profondamente la percezione del cortile rinascimentale. Tre pilastri costruiti con colonne di vecchie mattonelle sono le ideali fondamenta di un intervento che si completa in una parte aerea realizzata con listelli di legno flessibili e fascette da imballaggio. Decine di mattonelle in ceramica, solitamente utilizzate per il rivestimento d’interni, diventano un elemento strutturale precario che entra in contrapposizione con l’architettura del cortile; i listelli di legno posti in tensione tra i pilastri e le colonne acquistano un valore disegnativo e simbolico grazie alla loro capacità di flettersi e generare forme fluide e incontrollate; le fascette in plastica non sono celate allo sguardo come nel loro usuale utilizzo, ma divengono il tessuto connettivo fondamentale tra gli elementi dell’installazione, come una punteggiatura che tiene insieme le frasi di un testo. Ogni parte ha una precisa funzione statica e strutturale, niente è superfluo; quello che ne deriva è una sorta di scultura brutalista che rivela la sua essenza piuttosto che mascherarla.

La scelta di recuperare vecchie mattonelle, abbandonate in scantinati o soffitte dopo i classici lavori di ristrutturazione, riporta l’installazione a una dimensione simbolica, umana e biografica. Sono oggetti del privato che entrano in uno spazio pubblico che non gli appartiene, un incontro tra cultura popolare e architettura rinascimentale. Sono mattonelle datate, retrò, kitsch, usate come un generatore di ricordi e relazioni. I pilastri disarticolati che ne derivano sembrano erigersi dal sottosuolo come le fondamenta di un edificio in attesa di essere completato, eppure già ancorato al colonnato del palazzo. L’installazione parte da solide fondamenta per poi proseguire verso l’alto con un brusco cambio di registro: dai tondini di acciaio ancorati sulla cima dei pilastri partono numerosi listelli di legno che indirizzano lo sguardo verso un percorso sempre più curvilineo e verticale, per poi ritornare su un ipotetico punto di partenza.

La rigidità strutturale degli oggetti disposti nel cortile lascia il passo a un disegno fluido generato dal movimento dei listelli che invadono lo spazio con delicate volute. Più sale verso l’alto, più tutto si fa rarefatto e leggero. La materia diviene pensiero. Se, per i pilastri, la forma è dettata dalla dimensione delle mattonelle che rivestono il ruolo della cassaforma, nella parte aerea aumenta il gioco delle possibilità. I listelli sottoposti a tensioni e torsioni si flettono fino quasi a rompersi, galleggiano mossi dal vento, indagano lo spazio, lo invadono, lo sezionano, cingono le colonne, talvolta le proteggono; su un piano più metaforico creano una connessione tra un presente fragile che deve essere continuamente ripensato e riadattato, e una storia solida, imponente, talvolta ingombrante, ma sempre necessaria. L’opera innesca un rapporto mutuale con l’architettura del palazzo rinascimentale, in un continuo scambio tra passato e presente, forme geometriche e forme organiche, stabilità e precarietà. Una relazione tra due mondi in apparente contrapposizione che trovano un punto d’incontro nella necessità dell’uomo di costruire, andare verso l’alto e volgere lo sguardo al cielo.


Die Mauer arte contemporanea Prato 19 Ottobre 2013

Franco Menicagli

Curve Germinative

A cura di Gianluca Marziani

Franco Menicagli conferma un ponderato interesse per la verifica e la correzione dei codici iconografici, nel suo caso in sintonia con il Minimalismo e le molteplici declinazioni dell’essenzialità modulare. Scheletri complessi, agglomerati curvati, grovigli elastici, gabbie dinamiche… modi diversi per affrontare la fragilità dell’opera, la sua biologia instabile, i codici spaziali, le relazioni con il movimento plastico. Le sue sculture mappano l’andatura del vuoto fisico, diventando architettura dentro le architetture, un intrico di linee andamentali per ridefinire le coordinate tra uomo, opere e ambiente. Il Minimalismo storico si traduce in una riflessione oltre la linea e l’angolo retto, nel presente bulimico della curvatura digitale, degli angoli prostetici, delle connessioni stratificate. Tutto resta essenziale, privo di accenni accessori. L’opera agisce per equilibri dinamici, entrando negli interstizi dell’esistente, dando alla sua essenzialità una grazia più attuale che mai. Menicagli equilibra le citazioni per frammenti, come se la memoria fosse un gioco di addizioni, un’eredità poligamica che non riguarda un’opera ma aspetti singoli di molteplici opere. Da qui la sua verifica del presente, la correzione dei codici iconografici, dove l’evoluzione parla in silenzio e trova una cifra personale, evolutiva, “biologicamente” propria. Nella mostra da Die Maurer l’artista presenta tre progetti: un’installazione sul soffitto, un’opera sul pavimento e un terzo progetto, dal titolo “Abrasiva”, in cui ha consumato un foglio di carta vetrata su cui è riprodotta la planimetria dello spazio. Il legame con l’ambiente è pressoché totale: le opere plasmano l’invisibile e ne mostrano gli intrichi germinativi, le memorie residuali, le possibilità inespresse. La stessa carta inverte la cancellazione nel suo contrario, rivelando lo scheletro del luogo, la memoria fondativa che permette ai segmenti sinuosi di conservare e far progredire il presente. Conservazione e progresso assieme, sintesi di un minimalismo evoluto in cui l’opera verifica la memoria per correggere la direzione del presente, verso geometrie instabili ma resistenti, figlie di un presente tra visibile e invisibilità, pesante e leggero, lento e rapidissimo.


Le curve diventano germinative.

SENZA-Raffaele Di Vaia. Franco Menicagli, Stefano Tondo, C2 Contemporanea 2, Firenze
di Giuliano Serafini

“Senza”è avverbio che non può essere privato del sostantivo referente .Ma se, come scrive Nietzsche, la volontà si afferma negandosi, sapremo dare un senso a quella parola orfana. E riconoscere che anche la creazione può manifestarsi dove la si nasconde o, appunto, la si nega. E’ in questa ablazione del corpo reale dell’opera che va letto l’intervento (virtualmente) congiunto di Raffaele Di Vaia, Franco Menicagli e Stefano Tondo. Quasi una variazione surplace di un testo preesitente – il lavoro già fatto – quando cioè l’opera è in grado di rivelare il suo destino mutante, ma anche il vizio di sfuggire a chi l’ha pensata e voluta. Come dire che per l’opera non ci sono punti di arrivo, e l’artista lo sa, anche se non vorrebbe. L’imperativo faustiano che se pur inconfessato resta la tentazione di ogni processo creativo, deve fare insomma i conti con quanto di scettico e relativistico informa la filosofia estetica del dopo post- postmoderno: quando, secondo le profezie di guru laici e confessionali, ci sarà spazio solo per lo
spirituale. Come peraltro, ed è Baudrillard ad auspicarlo, spirituale dovrà essere il XXI secolo se vorrà sopravvivere a se stesso. Che è condizione tanto inevitabile e fatalistica da farci adottare in surrogato ( a titolo consolatorio ?) la spiritualità analogica delle tecnoscienze informatiche. Il lavoro dei sodali di Senza consiste dunque in una comune scorporazione o”smontaggio” degli elementi strutturali dell’opera e in un loro transfert entro una diversa sfera sensoriale; là dove la percezione diventerà esperienza avventurosa e aleatoria.
Per tutti e tre si tratta in sostanza di una rilettura critica del “testo” di cui dicevo, e dunque di una distanza che si è voluto mettere tra sé e l’opera, quasi a recuperare segni e significati che la prima stesura non aveva previsto o valutato. Ma si tratta anche di una sorta di prova d’appello per un’idea incompiuta e perfettibile, di un allargamento del potenziale fenomenico di quanto si è creato. In altre parole l’opera potrà scomparire e rivelare il suo alter ego auratico, allo stato di elisir, di essenza, di seme. Con una sequenza di fotogrammi tratti da un precedente video e “tradotti” a grafite su tavola, Di Vaia esegue una sorta di odissea domestica dove luce e ombra emergono, come su un dagherrotipo, per opacità e lucentezza del medium che si è sostituito a quello meccanico. Tra apparizione e scomparsa, l’artista inquadra “in soggettiva” passaggi subliminali della sua peripezia subentrando una volta di più all’obiettivo e mettendone in crisi le prerogative di oggettività e di inappellabile
aderenza al vero. L’intervento manuale sulla matrice video, nel momento in cui, ricalcandola, “rinnega” l’opera originaria, sposta l’interrogativo sul dogma della verosimiglianza in arte e dunque sull’ambiguitàche presiede ogni forma di riproduzione e di mimesi della realtà. Il fuggitivo, che è il titolo dato da Di Vaia a questo lavoro, insegue in definitiva l’irrisolto quesito
che rimanda a sua volta alla teoria di Platone secondo cui l’arte, attraverso la mediazione dell’idea
di cui la natura è il riflesso, diventa a tutti gli effetti la copia di una copia. La fuga di Di Vaia si risolve cosi nella metafora di questo irraggiungibile bersaglio, nella messinscena di come, sconfessando i canoni di comportamento del processo artistico, per l’artista nessun “esito” sarà da raccogliere e conquistare. Quando il percorso fatto non costituisca di per sé un traguardo, attestandosi come unica certezza della meno garantita tra le avventure dello spirito. Autore di strutture aperte che hanno bisogno di espandersi nello spazio prima ancora di rivelarsi come forme plastiche compiute, Franco Menicagli dà all’”opera che non c’è” il senso di luogo liturgico, di edicola sacra che si nega all’occhio profano. La priva cioè dell’ habitat che le compete e che le permetterebbe di evolversi e la segrega infine entro quattro pareti di faesite traforata che concedono allo sguardo una percezione indotta, filtrata, ingannevole.


Il fare de-progettualizzato di Franco Menicagli

Arte e Critica n.68 2011

Francesco Marmorini

Equilibri di forze e tensioni; masse schiacciate a terra dalla gravitazione e corpi fluttuanti senza peso; materie, energie e reciproche interazioni. È un trasferimento dal sistema simbolico delle formule a quello visivo, una commutazione di un repertorio di vocaboli da un campo a un altro quella che Franco Menicagli effettua sotto traccia, senza darne di conto a lavoro concluso. È un’assunzione di linguaggio al solo scopo formativo e non per dare nomi nuovi alle cose del mondo, che si ridefinisce sul piano visivo e non su quello semantico. Le forme ci sono già date, sono fantasmi intorno a noi e si tratta solo di immaginarle e materializzarle. La sottile striscia di legno, che flettendosi viene indotta a cercare e trovare il suo limite di resistenza, non fa che visualizzare lo sforzo cui viene sottoposto il materiale in un dato momento, la possibilità che le particelle di uno specifico materiale si configurino in tale modo. L’artista riempie i vuoti nello spazio e, su un piano diverso, anche le lacune intorno a oggetti rotti, amputati, trovati, recuperati, salvati, che vengono prolungati e collegati tra loro allo scopo di individuare nuove forme fino ad allora esistenti solo in potenza. Lo fa in modo estremamente gestuale, con ridotti tempi di esecuzione e progettualità quasi azzerata, ridotta alla scelta degli oggetti di partenza, senza schema e vincoli procedurali. Menicagli procede istintivamente schizzando inediti legami tra le cose, accarezzando estreme soluzioni formali, come un designer dell’effimero, che si rifiuta di ricollocare un oggetto in una qualunque categoria funzionale, ponendolo fuori dall’utile. Il restauro di un frammento diviene così l’attività che ricolloca e riposiziona la cosa in un diverso contesto, progettando per esso una nuova esistenza anziché prolungare la durata di quella passata. In tutto questo pesa il processo formale come attività attraverso la quale l’opera si crea e si appropria di senso mentre si fa. La prevalenza della prassi sulla teoria porta infatti all’intenzione di delegare le linee guida del proprio lavoro all’istinto del fare, della “formatività, in quanto fare, che mentre fa inventa il modo di fare”, per dirla con Luigi Pareyson. Poche quindi le regole procedurali dalle quali si sente vincolato: la scelta dei materiali e l’individuazione dei frammenti di riuso, anche se l’elemento più determinante in questo senso è probabilmente il raggiungimento di un certo risultato estetico finale, che corrisponda a caratteristiche abbastanza omogenee riscontrabili variamente nelle diverse serie di lavori. Caducità dell’opera, continua trasformazione degli elementi, ridotta o assente capacità funzionale rendono inoltre l’opera di Menicagli quasi inafferrabile e sfuggente, veloce nelle sue ridefinizioni e mutazioni quasi come i tempi di formalizzazione cui sottende. È un lavoro che sottilmente si schiera contro la facile mercificazione e certi disvalori prodotti dal mercato e che per questo può essere considerato, senza forzature, politico.


Flash Art 294 GIUGNO 2011

SUSPENCE. Sculture sospese
Alessandra Poggianti

SI INTITOLA “SUSPENCE. Sculture Sospese” l’ultimo progetto curato da Lorenzo Giusti e Arabella Natalini presso lo spazio EX3 di Firenze. Sedici lavori uniti dalla sospensione spaziale,
“una selezione tra le molte a cui si può far riferimento”, afferma Giusti nel catalogo edito da Damiani. Una volta dentro lo spazio espositivo si ha la sensazione che qualcosa sia successo e si sia fermato. Come nella sequenza dell’esplosione nel film Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni, si vive lo stesso senso di vertigine che obbliga lo sguardo a sostare sull’immagine, a contemplare i pezzi di un’epoca in cui cadono le certezze filosofiche, le ideologie politiche e religiose. Ogni scultura porta con sé un pezzo di reale che viene assemblato e ricostruito sui principi di sobrietà e leggerezza, diventando così un precario oggetto organico. Tomorrow Will Be Like Today si intitola l’opera di Hans Schabus, in cui l’artista sospende uno sgabello artigianale utilizzato per anni da uno scultore italiano che lo ha ricoperto con pezzi di stoffa aggiunti nel tempo. Ogni frammento dello sgabello diventa parte del racconto personale di chi lo ha vissuto, mentre la sua sospensione tesse una storia a-temporale. Il gruppo di opere scelte vuole dimostrare come la produzione scultorea contemporanea tenda a liberarsi della pesantezza e, anche qualora l’oggetto sia greve, come lo sciame di cemento dell’artista messicano Héctor Zamora, non costituisce un impedimento alla volontà di svincolarsi da ogni rapporto con il suolo. Gli artisti aprono, così, un corpo a corpo con il terreno: ecco allora l’installazione del toscano Franco Menicagli che supera il problema gravitazionale e vive di forze intrinseche e determinate dalla relazione di oggetti diversi assemblati tra loro.Spesso si tentadi stabilire un contatto tra il basso e l’alto, il verticale e l’orizzontale, il tradizionale spazio della visione con quello del quotidiano, come nelle sculture di Daniela De Lorenzo e AlexandraBircken che sfiorano il pavimento creando una sospensione fisica, ma anche di senso. “Suspense” innesca, così, un’attesa, la stessa che nei film si consuma lentamente e quasi sempre alla fine. In questo caso la suspense non si risolve e l’oggetto sospeso crea una tensione che obbliga a interrompere “il flusso abituale e atteso degli eventi, l’abitudine a recepire e subire un flusso continuo di immagini” (A. Natalini). La sospensione in scultura ha radici nella tradizione avanguardista e in particolare nei “Mobiles” di Calder (citati, in mostra, dall’artista Beth Campbell). Oggi questa perdita di peso contribuisce ulteriormente all’abolizione del piedistallo e quindi al processo di de-monumentalizzazione in atto. Ma come afferma Fabio Cavallucci, chiamato inevitabilmente in causa dopo aver intitolato la sua Biennale di Carrara “PostMonument”, “la monumentalità non è affatto in crisi”; aggiungo: non solo quella estetica (vedi le installazioni di Tobias Rehberger), ma anche quella politico-sociale, per cui si preferisce non seppellire un cadavere per paura che la tomba ne diventi il monumento!


 Arte da appendere L’insospettabile leggerezza del contemporaneo
La Repubblica 19 febbraio 2011 — pagina 12 sezione: FIRENZE

http://ricerca.repubblica.it/

LA LEGGEREZZA sono sottili strisce in legno di balsa, legate tra loro con fascette di plastica, che tagliano lo spazio in linee sinuose. Una scultura non scultura, fragile, sospesa, che racconta «la conoscenza, la rete della connessione, l’impermanenza della creatività. Ogni volta la reinvento, non è mai uguale, nasce da un gesto che si scontra con la precarietà del materiale» spiega Franco Menicagli, artista livornese di 42 anni, vive e lavora a Prato. Claire Morgan, di Belfast, timidissima trentenne dai capelli rosso vermiglio, ha creato un esile mondo di geometrie deperibili: una grande gabbia, tessuta di migliaia di foglie di ligustro infilate in lunghi fili, che imprigiona due passerotti. Lì si incontrano vita e morte, effimere come un batter d’ali, fluttuanti, senza peso e durata.
È così che gli artisti raccontano l’oggi, la nostra condizione stretta in continue incertezze. La vita provvisoriae “liquida” della postmodernità, come l’ha definita Zygmunt Bauman, va in onda negli spazi di Ex3, il centro per l’arte contemporanea di viale Giannotti, nella nuova mostra che sotto il nome di Suspense-Sculture sospese riunisce i lavori tridimensionali di 16 artisti internazionali di generazioni diverse che esplorano la sospensione, la leggerezza, l’anti-monumentalità della scultura contemporanea. Arabella Natalini e Lorenzo Giusti, curatori della rassegna, hanno scelto gli artisti in base a questo “espediente”: «Un dispositivo, un punto di vista che invita a una riflessione sulla fisicità del lavoro – spiegano – La scultura ha perso piedistallo, solidità e staticità per un’ascesa verticalità, fatta di fili, cavi, grovigli, in cui la figura umana è solo evocata o accennata». Un percorso segnato dai riferimenti a Tatlin, ai mobiles di Calder, alle installazioni degli anni ’60, a nuovi materiali e creazioni d’arte che cancellano immanenza e fissità delle forme della scultura, proiettandole in nuove visioni della spazialità. Un’esperienza fisica appunto, che il visitatore compie immergendosi nel salone di Ex3, dove incontra e attraversa le combinazioni di materie ultraleggere degli artisti: il patchwork colorato di tessutimemoria creato dalla tedesca Alexandra Bircken, appeso come un tendaggio, le scatole aeree di fili di ferro dell’americano Pae White issati al soffitto, i feltri con cui la fiorentina Daniela De Lorenzo dà forma alla contorsione di un corpo, la struttura di fili che regge la sfera trasparente in cui vive una pianta, mondo-relitto ideato dall’argentino Tomas Saraceno. E ancora, fili piegati per tensostrutture dello sloveno Tobias Putrith, e fili di acciaio ramificati con cui l’americana Beth Campbell intreccia i suoi delicati mobiles, fino all’irruzione della luce in due installazioni-lampade che sperimentano nuove forme e colori, per un oggetto d’uso quotidiano. Tutte le opere in mostra declinano un fluire di relazioni ed emozioni, accomunate da una perdita di gravità che le eleva a simulacri di architetture volanti, quasi fossero oggetti giocosi. «Già viviamo in un mondo sovraccarico di tutto, meglio sperimentare il limite, la non durata, non occupare uno spazio in modo permanente» dichiara ancora Franco Menicagli, invitando ad entrare nelle fragili spire delle sue linee di legno di balsa, a sperimentare il vuoto e il pieno di un passaggio, il tempo breve di una forma che ha perduto l’eternità del monumento. Una metafora, rappresentazione dei tempi che viviamo, quel tempo incerto scritto anche in questa mostra collettiva che «raccoglie artisti nati tra il 1950 e il 1980, che il pubblico potrà conoscere anche con le visite guidate gratuite in programma una volta alla settimana» spiega il direttore del centro Sergio Tossi, o godersi ancor meglio in notturna, quando la luce raddoppia in ombre le numerose forme sospese di Hector Zamora, artista messicano che ha installato una sorta di flotta di sculture aerostatiche all’ingresso di Ex3, simile ad un suggestivo volo uncinato di gabbiani. Suspense s’inaugurata oggi 18.30 e resta aperta gratuitamente a fino all’8 maggio (da mercoledì a domenica, 11-19, venerdì fino alle 22, chiuso lunedì e martedì). Info www.ex3.it
– MARA AMOREVOLI


EX3 Centro per l’Arte Contemporanea Firenze

Suspense. Sculture sospese
19 febbraio – 8 maggio 2011
a cura di Lorenzo Giusti e Arabella Natalini

Si apre sabato 19 febbraio 2011 Suspense. Sculture sospese, una mostra a cura di Lorenzo Giusti e Arabella Natalini, che vuole esplorare il concetto di “sospensione” in relazione alla produzione scultorea contemporanea.

Negli spazi di EX3, Centro per l’Arte Contemporanea, Firenze, saranno presentate opere di artisti di diversa generazione e provenienza, realizzate nel corso dell’ultimo decennio, tra il 2000 e il 2010.

Gli artisti invitati sono: Alexandra Bircken (Germania, 1967), Beth Campbell (Usa, 1971), Daniela De Lorenzo (Italia, 1959), Claire Morgan (Irlanda, 1980), Franco Menicagli (Italia, 1968), Ernesto Neto (Brasile, 1964), Jorge Pardo (Cuba, 1963), Cornelia Parker (Regno Unito, 1959),Tobias Putrih (Slovenia, 1972), Tobias Rehberger (Germania, 1966), Tomas Saraceno (Argentina, 1973), Bojan Sarcevic(Bosnia 1974), Hans Schabus (Austria, 1970), Luca Trevisani (Italia, 1979), Pae White (Usa, 1963), Hector Zamora (Messico, 1973).

Con il termine “sospeso” si indicano alcuni lavori tridimensionali, in massima parte non poggianti a terra, nei quali si privilegia il vuoto alla massa, la leggerezza al peso, il movimento alla stabilità. Quello che si vuole approfondire è un fenomeno diffuso la cui origine si può fare risalire ad alcuni esempi della tradizione avanguardista, dal costruttivismo al surrealismo, ed in particolare ai mobiles di Calder.

La carenza di certezze filosofiche e di ideologie politiche o religiose, parallelamente a una presa di coscienza dei limiti dello sviluppo a cui si è affiancata una sempre più diffusa esigenza di sobrietà e leggerezza, ha contribuito ad un aumento esponenziale della creazione di opere esili, precarie o effimere, molte delle quali si trovano oggi a condividere la caratteristica della sospensione. Una parte significativa della produzione scultorea contemporanea ha infatti non soltanto rinunciato al piedistallo, ma si è anche radicalmente svincolata da ogni rapporto con il suolo.

Esplorata, attraverso singoli episodi, nel corso del XX secolo, la pratica della “sospensione” è diventata, nell’ultimo decennio, elemento distintivo della poetica di numerosi artisti. In mostra sarà dunque presentato un gruppo di opere sospese o aggettanti caratterizzate da un generale rifiuto di ogni forma stabile o prefissata. Opere che suggeriscono l’idea di una possibile manipolazione o di un probabile attraversamento, pur mantenendo, in virtù della loro tridimensionalità e della loro spazialità, un saldo legame con un’idea, seppure mutata, di scultura.

Il nucleo di artisti chiamati a partecipare all’esposizione, accumunati da tale attitudine alla sospensione scultorea, veicola plurime ed eterogenee volontà comunicative: le condivise caratteristiche di leggerezza, dinamismo, antimonumentalità e precarietà delle opere presentate ad EX3, si qualificano come veri e propri espedienti linguistici atti a scaturire molteplici riflessioni.

È il caso dell’indagine sui processi naturali, variamente condotta sia attraverso il prelievo di oggetti naturali, riproposti come strutture astratte e arbitrarie da Bojan Sarcevic, sia nelle architetture vegetali di Claire Morgan, nei microcosmi di Tomas Saraceno, negli agglomerati scultorei di Pae White o nelle forme biomorfiche dei mobiles di Beth Campbell. Dell’ulteriore riflessione sull’identità, riscontrabile nelle forme antropomorfe costruite per mezzo di materiali d’uso quotidiano di Alexandra Birken, nelle gabbie umane di Jorge Pardo, nei calchi in feltro di Daniela De Lorenzo, o rappresentata concettualmente per mezzo della dicotomia tra presenza e assenza nell’opera di Hans Shabus. Dell’indagine sulla temporalità intrinseca dell’oggetto e sulla sua tendenza alla mutazione a e al deterioramento, rilevabile nelle strutture di Franco Menicagli e di Luca Trevisani, o nelle accumulazioni di Tobias Rehberger. Della riflessione sull’instabilità della percezione e sulle sue derive semantiche, suggerita dalle strutture ibride tra trappole e ripari di Cornelia Parker, dagli apparati sperimentali di Tobias Putrih, dalle sculture di Hector Zamora, situate sul doppio crinale astratto/figurativo, pesante/leggero, o dalle installazioni percorribili e abitabili di Ernesto Neto, dove all’instabilità percettiva concorrono aromi e odori che, parimenti alle forme fluttuanti e organiche delle strutture,
coinvolgono fisicamente lo spettatore. Plurali direttrici di ricerca che vengono condotte attraverso la sempre mutevole e cangiante relazione che le opere instaurano con lo spazio circostante, in virtu della loro sospensione e precarietà.


Private Flat#6 Brucia Babilonia
PF#6.5
via Giuseppe Giusti 16, Firenze 8-10 ottobre 2010

B-label
a cura di Irene Balzani e Irene Innocente

B-Label allude al nome ebraico di Babilonia, Babele, la cui etimologia deriva dalla radice “bll”, letteralmente “confusione”. La città è il simbolo biblico della pluralità linguistica intesa come incomunicabilità: la compresenza di lingue differenti annulla ogni possibilità di comprensione.
Nell’odierna società mediatica non solo la molteplicità di linguaggi, ma anche la somma caotica di informazioni genera una babele di stimoli.
Di fronte all’eccessiva quantità di sollecitazioni, l’artista può operare una scelta, effettuare un prelievo di oggetti, suoni, situazioni, che, isolati come unità minime, diventano predicati nuovamente disponibili per la riflessione e la comunicazione.
L’opera, in quanto somma irriducibile ai distinti elementi che la compongono, si apre inoltre ad ulteriori contributi provenienti dal confronto con la singolarità di ogni spettatore.
B-Label contiene il suono onomatopeico bla, utilizzato solitamente in sostituzione delle parole: identifica il parlare, ma non comunica, se non in un’accezione prelinguistica, originaria.
Gli apporti non verbali prelevati dal contesto esterno, tracce di presenza involontarie (respiri,rumori, materiali di scarto…), sono catturati dall’artista, il quale li rende percepibili, li articola e li elabora attraverso il suo personale discorso, riuscendo a creare un linguaggio nel quale gli elementi si fondono acquisendo nuovi significati.
L’artista non si limita dunque al prelievo, ma opera scelte meditate, funzionali all’elaborazione della propria idea; in questo modo l’impronta autoriale non è demandata, ma rimane come segno distintivo della personalità creativa dell’artista.
B-Label allude, inoltre, alla possibilità di una lettura che vada oltre la prima interpretazione dei lavori, pervenendo al lato nascosto del contesto semantico (come una sorta di B-side).
Opere che si aprono a diverse letture e che utilizzano mezzi espressivi diversi (visivo, sonoro, digitale, del corpo…) sfuggono, infine, a qualsiasi etichetta -in inglese label-.
All’interno di uno spazio non neutro, solitamente adibito a studio d’artista, Lisa Batacchi, Raffaele Di Vaia e Franco Menicagli, creano situazioni spazio-temporali di sospensione, facendo emergere
frammenti inconsapevoli di realtà, attraverso opere pensate appositamente per essere in relazione
profonda con questo luogo. I lavori dei tre artisti portano avanti una personale riflessione sul linguaggio, inserendosi in modo coerente all’interno del loro percorso creativo.
Lisa Batacchi realizza un’installazione dal titolo Leggerezza, ispirandosi a una delle Lezioni americane di Calvino. Per sfuggire al peso del corpo, superare l’opacità del mondo, l’artista trae da
esso gli elementi più lievi, le tracce più sottili, attua un alleggerimento linguistico del reale, che introduce lo spettatore in uno spazio rarefatto nel quale “il vuoto è altrettanto concreto che i corpi solidi”.Attraverso la metafora del respiro, movimento intimo, inconsapevole e al contempo indispensabile alla vita, l’opera sottolinea l’inscindibilità di pieno e vuoto, di confusione e silenzio.
Raffaele Di Vaia attraverso l’occhio della telecamera, isola un frammento visivo di forte intensità poetica, in cui il Canto di un uccellino, costretto a comunicare dalla situazione d’emergenza, rimane inascoltato, e finisce per confinare maggiormente il piccolo animale, costruendogli attorno una gabbia d’incomunicabilità. Il titolo dell’opera attua un gioco linguistico sottolineato dalla posizione della proiezione del video: l’uccellino è chiuso dal suo canto (inteso come espressione vocale) nel suo canto (inteso come luogo fisico).
Franco Menicagli lega insieme elementi naturali e materiali trovati e li piega per far emergere sia le loro forze latenti intrinseche che quelle generate dalla loro unione. L’acqua, i panni bagnati, il legno, interagiscono tra loro, quasi a creare una nuova forma comunicativa che ha nella materialità
il suo fondamento. Collocati in una zona liminare dello studio come il balcone, essi inoltre si pongono in dialogo con lo spettatore, divenendo un ideale “ponte” tra interno ed esterno, tra spazio privato e pubblico.


Nuovi Talenti Nomadi, coraggiosi e liberi la meglio gioventù dell’arte

Repubblica — 18 agosto 2010 pagina 8 sezione: FIRENZE

iovani artisti toscani. Avrete visto alcuni dei loro lavori nelle rassegne alla Ccc-Strozzina, al Museo Marini, a Ex3 di Gavinana o in qualche altra mostra. Sono tanti, tutti ventenni o trentenni, e compongono la costellazione sempre più folta e visibile che ama praticare la pluralità di linguaggi che vanno dalla sperimentazione con la pittura, la scultura, il corpo, la multimedialità del contemporaneo che mescola fotografia, installazioni, video, performance. Si raccontano con entusiasmo e coraggio, non si lamentano e non guardano alla crisi, ma più lontano. E provano a raccontarci un mondo non più incapsulato nel passato, ma filtrato attraverso le tante lenti deformanti, e forse non più nuove, dell’arte di oggi. Ne abbiamo scelti un campione: Emanuele Becheri, Francesco Carone, Giovanni Ozzola, Margerita Moscardini, Zoè Gruni. E se è opinabile la loro rappresentatività della “nouvelle vague” artistica toscana, tuttavia sono i nomi che emergono secondo alcuni critici d’arte e curatori di gallerie. «Sono i giovani artisti orgogliosie bravi che popolano la scena fiorentina e toscana grazie anche agli spazi che li hanno fatti conoscere. Non hanno maestri di riferimento unici e sono un po’ cani sciolti. «Lavorano con molta libertà, rispetto e competenza – spiega il critico Alberto Salvadori – Tuttora hanno una base territoriale in Toscana ed hanno un confronto aperto e continuo con i paesi stranieri, partecipando a mostre o vincendo premi di “residenza per artista” in Europa». Vivono un po’ nomadie lavorano in silenzio, individualmente, con determinazione, «testimoni di un’ultima generazione di talenti che, al di là dei tempi difficili e di un futuro che non manda segnali incoraggianti, ha molta voglia di affermarsi» aggiunge Sergio Tossi responsabile di Ex3-Toscana Contemporanea, aggiungendo altri nomi che segnano la generazione precedente e già affermata di Vittorio Corsini, Daniela di Lorenzo, Giacomo Costa, Loris Cecchini, Robert Pettena, Lorenzo Banci. E altri giovani ancora che fanno base a Firenze, Prato, Pistoia, Sienae Pisa come Michelangelo Consani, Cristina Palandri, Franco Menicagli, Letizia Renzini, Federico Gori, Giovanni Surace, PlusPlusStudio, Bernardo Giorgi, Raffaele Di Vaia, Stefano Tondo, Eugenia Vanni. – MARA AMOREVOLI


TEMPI OSCENI-Moments de la photographie italienne II

Fabio Barile – Chiara Cochi – Simone Donati – Alessandro Mencarelli – Franco Menicagli – Marzia Migliora – Silvia Noferi – Giuseppe Toscano
Curateurs : Alessandra Capodacqua – Paul di Felice – Danielle Igniti

http://www.galeries-dudelange.lu/

Quand est né l’idée d’organiser une nouvelle exposition sur la photographie contemporaine italienne, nous avons pris comme point de départ l’exposition organisée en 2001 intitulée Tempi in scena : Moments de la photographie contemporaine italienne. Cette exposition regroupait quelques artistes italiens et étrangers qui avaient tous un parcours de formation commun au sein de l’école de la photographie « Fondazione Studio Marangoni » de Florence où ils ont faits leurs études dans le cadre spécifique du Corso Triennale.
Le défi était difficile à relever : il fallait éviter une exposition « photocopie », c’est à dire en reprenant simplement les mêmes artistes, et en même temps il fallait trouver un nouveau fil conducteur .
Si pour la première édition nous avons montré quelques aspects des nouvelles sensibilités artistiques d’une génération d’artistes marquée par le changement de paradigme de la photographie contemporaine en Italie, exprimant l’intime et les mutations de la vie au quotidien, pour la deuxième édition nous avons décidé de mettre davantage l’accent sur les images photographiques qui racontent les réalités d’aujourd’hui comme tentative de résistance à la situation italienne actuelle.
En observant les œuvres de différents artistes, une tendance double a émergé. D’un côté, la représentation du moment historique que l’Italie est en train de vivre, de l’autre une sorte d’idéalisation dans la tentative de dépasser une réalité qui pour nombreux Italiens se révèle être incommode et peu confortable.
De cette duplicité a jailli l’idée de montrer cette Italie où, l’image de la réalité violente des sujets politiques et culturels – qui la détruise progressivement, s’oppose à l’image d’une transfiguration sublimée.
Comme l’observe la critique et historienne de la photographie Roberta Valtorta : « Les artistes font plein usage des possibilités que la photographie leur donne grâce à sa souplesse et sa capacité de s’adapter à tout type de contexte. »
(Roberta Valtorta, Il pensiero dei Fotografi, Un percorso nella storia della fotografia dalle origini a oggi, Bruno Mondadori, Milano, 2008)
Le fil rouge entre ces deux expositions se trouve dans l’articulation de cette pensée photographique liant la grande histoire aux petites histoires, le public à l’intime, le réel à la fiction. Le lien se fait aussi par le titre qui reprend le substantif « tempi » en jouant sur les mots : tempi in scena pour l’exposition de 2001 et tempi osceni pour l’expo 2009. D’une époque où l’artiste s’inspire de la mise en scène intimiste, des changements du corps privé en corps public, de l’influence des médias sur la vie quotidienne nous passons à cette génération émergente dont les nouvelles voix se font doucement entendre en Italie. En dénonçant la trivialité, l’indécence et le mauvais goût des représentants politiques, les artistes à travers leurs photographies et vidéos engagés, parfois décalés, essaient de résister à « l’obscénité » (au sens figuré) de la situation italienne actuelle .
Voilà donc que le travail de Simone Donati a marqué le pas pour la construction de l’exposition. Son travail Welcome to Berlusconistan raconte la fracture de l’Italie d’aujourd’hui à travers les visages et la gestualité des gens qui participent aux rassemblements du « Popolo della libertà », le parti formé par « Forza Italia » et « Alleanza Nazionale ».
Pour mieux comprendre ce phénomène typiquement italien il suffit de lire ce que Marco Travaglio a écrit dans Il Fatto du 24 septembre 2009 :
« Massimo D’Alema (illustre représentant du Partito Democratico et ex premier ministre, ndr) a raison : en Italie il y a trop d’antiberlusconisme qui dérive vers une sorte de sentiment anti-italien. Berlusconi le dit aussi (la gauche est anti-italienne), donc c’est certainement vrai. « cette concession d’une minorité illuminée qui vit dans un pays malheureux – explique encore d’Alema- c’est la pire approche que nous pouvons avoir. Il faudrait plutôt essayer de comprendre les raisons de la droite »
Les travaux sélectionnés pour cette exposition expriment en quelque sorte ce sentiment dualiste de la réalité pure et dure et du refuge idéalisé.
Les vidéos de Franco Menicagli et de Marzia Migliori nous racontent sous forme allégorique et symbolique la situation compromettante évoquée plus haut.
Dans Ciotola de Menicagli nous observons la reconstruction d’un bol cassé qui à la fin de cette réparation mal faite laisse apparaître les traces de ruban adhésif alors que dans Bianca e il suo contrario, Marzia Migliora, l’artiste apparaît vêtue de blanc, immobile devant la caméra quand à l’improviste des gouttes de liquides noirs commencent à couler le long du corps et de la robe en les couvrant de noir. Deux situations différentes et deux sensibilités apparentes qui évoquent de façon poétique et philosophique la rupture sociale et culturelle.
Le travail de Alessandro Mencarelli Hotel Clandestine qui est l’histoire d’un immigré clandestin qui se réfugie dans un vieux cabanon, devenant son lieu de résidence, s’oppose à la série Hotel Rêverie qui montre des photographies mises en scènes dans un hôtel inoccupé, en voie de rénovation, revisité en clef de songe par Silvia Noferi.
L’œuvre Among de Fabio Barile est une longue narration tout au long de 1200 km de côte italienne qui révèle une altération de l’équilibre par l’érosion marine due aux interventions spéculatives de l’homme. Derrière la beauté de ces images se cache une nature blessée, transpercée par l’action irrespectueuse de l’homme.
Dans la série Occhio ragazzi de Giuseppe Toscano, la campagne toscane resurgit dans toute sa beauté. Pourtant ce sentiment change radicalement quand l’observateur découvre que ce travail se base sur des faits divers survenus entre 1968 et 1985 où la région de Florence était devenue le théâtre d’une série d’homicides sur de jeunes couples. L’artiste en s’inspirant d’une réalité policière archivée recrée un environnement ambiguë entre récit objectif et fiction subjective. En faisant resurgir des détails symbolisant la déchirure, l’effacement, l’encerclement, l’enfermement voire la disparition, Toscano réussit à transfigurer le quotidien de lieux désormais abandonnés par les hommes. En cadrant sur le plein d’arbres et de broussailles et en jouant sur les contrastes flou et net, il amplifie l’ambiance mystérieuse en y suggérant la violence cachée de nos représentations collectives des paysages fictifs des contes de fée.
La série Paesaggi con figure de Chiara Cochi nous plonge aussi dans un univers étrange résultat de notre société post-industrielle où la nature semble en voie de disparition. L’harmonie d’une vallée, la solitude du promeneur sont altérées par l’asphalte dominant et l’homme – que Cochi définit par figures – ne fait plus partie de l’ensemble mais devient un élément variable dans le contexte.
Cette petite sélection non-exhaustive de quelques jeunes artistes qu’on peut attribué à l’école de Fondazione Studio Marangoni de Florence témoigne d’une nouvelle prise de conscience sociale, politique et artistique et de l’impact d’une nouvelle pensée photographique sur le paysage culturel italien actuel.


Artkey Magazine www.teknemedia.net

Intervista a Franco Menicagli

Autore: Francesco Marmorini
data: 14.01.2009

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Una particolare personale all’atelier di Patrizia Pepe a Capalle, numerose partecipazioni a collettive, soprattutto con lavori site specific, e un costante impegno nella promozione dell’arte contemporanea. Si è chiuso un anno intenso e ricco di soddisfazioni per Franco Menicagli, che, forte ormai di alcuni punti fermi, mette continuamente in discussione il proprio lavoro senza farlo posare e sedimentare per più di una stagione. La dismissione delle vecchie opere e il ciclico recupero degli oggetti utilizzati all’interno di nuovi lavori, la critica della durevolezza dell’opera a favore di una libera decandenza naturale dei materiali, l’interesse per l’anti-monumentalità e per la pratica del restauro, sono alcuni dei concetti chiave necessari a comprendere il lavoro dell’artista toscano.

Francesco Marmorini: Il restauro è alla base della conservazione delle opere d’arte e quindi della trasmissione della cultura. Attingi spesso alla simbologia visiva legata a questa pratica, ad esempio riproducendone le impalcature. Cosa ti attira di preciso dei cantieri di restauro?
Franco Menicagli: L’apertura di un cantiere di restauro è sinonimo di interesse e di attenzione verso qualcosa che viene ritenuto importante, utile o prezioso. Mi interessano i parametri che determinano cosa sia degno di essere tramandato, rispetto alle cose che vengono invece abbandonate al loro normale deterioramento. Che cosa si ritiene sia necessario per la memoria collettiva e debba essere necessariamente consegnato alla storia? Credo sia degno di attenzione il fatto che questi parametri siano arbitrari e mutevoli nel tempo, che cambino attraverso le varie epoche storiche e si modifichino a seconda delle diverse aree geografico-culturali. Vedo il restauro anche come unica possibilità di costruire oggi. Non lo intendendo tanto come un’attività di riparazione, ma come un fare qualcosa di nuovo, uno stratificare per giungere a una condizione finale comunque diversa da quella iniziale.

F.Ma. Nel caso di “Interim” (2007), realizzato alla Facoltà di Architettura dell’Università di Firenze, sembra che l’impalcatura suggerisca un problema evidenziando una mancanza. Il lavoro in quel caso ci raccontava un’assenza e una sorta di decadenza in fieri dell’oggetto esaminato.
F.Me. Sì, certo, il lavoro accentua la precarietà e quindi l’inutilità dell’intervento stesso. In quel caso, avevo realizzato intorno a una colonna/piedistallo, che stava crollando, una struttura di legno tenuta insieme con il nastro adesivo di carta, un cantiere fittizio, che però suscitava curiosità nei passanti. L’impalcatura inoltre era montata per una scultura che non c’era. La mancanza dell’oggetto da restaurare faceva scattare un meccanismo mnemonico nel fruitore in quanto se una cosa non c’è più, chi guarda si chiede che fine abbia fatto.

F.Ma. Un processo simile al “Grottino” realizzato in piazza Pascoli a Matera. Qui avevi individuato una delle tante grotte rupestri della zona un tempo adibite al culto, che dopo essere rimasta alluvionata era divenuta impraticabile e confusa nella memoria della gente del posto. Tu hai costruito nella piazza principale una struttura in legno delle stesse dimensioni dell’interno della cavità sotterranea riportando in superficie e alla memoria degli abitanti un luogo della loro storia. Lo spazio architettonico negativo è sempre stato per te elemento di confronto. Penso anche all’altro lavoro site specific “Era Glaciale”, realizzato nel 2003/04 al Museo Laboratorio di Città Sant’Angelo.
F.Me. Sono interessato allo spazio in negativo sia concettualmente che formalmente. Questo può essere costituito da una parte architettonica mancante o in decadimento, ma anche da un ambiente che, persa la sua funzione originaria, è stato dimenticato e abbandonato. All’interno dell’ex Manifattura Tabacchi del museo laboratorio di Città Sant’Angelo avevo foderato con del cartone l’interno di una stanza a forma di igloo un tempo adibita a ghiacciaia. Mi interessava l’analogia tra l’igloo e la ghiacciaia. Con il rivestimento in cartone ho alterato la temperatura trasformando così la stanza più fredda del museo nella stanza più calda. Dopo che il lavoro era rimasto in permanenza per un anno ho tagliato il rivestimento interno dividendolo in due calotte e ho esposto una delle due parti in esterno, mentre l’altro mezzo igloo è rimasto dentro puntellato. Dopo un anno la calotta era tutta imbarcata e muffata ed era proprio questa l’operazione che mi interessava: passare dal negativo al positivo con la possibilità di leggere il passare del tempo.

F.Ma. Il tuo lavoro sembra essere molto adatto per la dimensione del site specific, che è sicuramente quella dove le componenti territoriali più condizionano il risultato. Come scegli i luoghi dove lavorare, che caratteristiche devono avere?
F.Me. Mi interessano le città storiche perché, sovraffollate di immagini del passato, sembrano non lasciare spazio alla realizzazione di nuovi elementi visivi. In questo senso il falso restauro, precario e malfatto evidenzia paradossalmente l’esigenza del costruire, là dove sembra impossibile, attraverso una tecnica imprecisa e l’uso di materiali facilmente deteriorabili, che a loro volta avranno bisogno di un restauro. Trovo interessanti anche i luoghi del fare dove si costruivano le cose; i laboratori, le fabbriche chiuse e abbandonate dove si è interrotta la produzione, luoghi che esprimono al meglio un senso di transitorietà del significato sociale dell’architettura.

F.Ma. Come si pongono i tuoi lavori nei confronti della abbastanza recente tendenza definita come anti-monumentale, le cui parole d’ordine sono non-spettacolarizzazione e chiavi di lettura frammentarie e non centralizzate con dispersione dei punti di vista?
F.Me. Ho sempre lavorato molto sul concetto di antimonumentalità. Anni fa creavo sculture in cartone per porle in esterno perchè si deteriorassero. La carenza di spazi per l’arte monumentale e pubblica mi portava a pensare una scultura che durasse il tempo di essere notata per poi lasciare lo spazio a nuove sculture. Trovo la scultura monumentale poco democratica sia per come si impone quotidianamente sui suoi ignari fruitori che per come irrompe nel paesaggio. L’arte monumentale con funzione duratura diventa un peso culturale perché è un fardello che volente o nolente presenzia un luogo e allo stesso tempo esige dei costi in termini di manutenzione.

F.Ma. A proposito di durevolezza dell’opera. Ti piacerebbe che il tuo lavoro rimanesse o lo vorresti sempre rielaborato e in costante divenire?
F.Me. Preferisco smontare e rimontare di continuo. Pur essendo consapevole che per un collezionista questo può essere un problema non riesco a concepire che i miei lavori durino in eterno. Non voglio invadere il mondo troppo a lungo con il mio messaggio visivo perché mi sembra già troppo saturo di informazioni. Preferisco un atteggiamento democratico, per cui quando una cosa va via ne arriva sempre un’altra, come in un corso vitale naturale; credo molto nel ciclo delle cose.

F.Ma. Le serie di lavori “Clues”, “Shell-like”, “Highlight” e “Strain-gage” ben evidenziano un itinerario iniziato nel 2007, che presenta una chiara e interessante evoluzione del tuo percorso scultoreo. In circa due anni l’indagine spaziale si è sempre più estremizzata allentando il contatto con l’oggetto di partenza iniziale alla ricerca di un sempre maggiore coinvolgimento dello spazio circostante. Sembra che tu abbia iniziato a concepire anche la scultura come interagente e dipendente da uno spazio architettonico.
F.Me. Penso l’oggetto innanzitutto come una forma e cerco di dimenticarmi della sua funzione originaria e anche per questo ho una propensione a smontare, a ridurre in frammenti destrutturando gli oggetti. Il frammento esprime l’esigenza di un completamento da parte dello spettatore e gli chiede di ritrovare un senso delle cose unendo indizi disseminati nello spazio. Questo insieme di relazioni crea delle strutture elastiche capaci di ingrandirsi ed estendersi notevolmente fino a occupare l’intero spazio o diventare esse stesse architettura. In uno dei miei ultimi lavori “Double-dekker” (2008), realizzato per la collettiva “Seek Refuge” al Camping Village di Venezia, ho invece estremizzato la funzionalità attraverso la decontestualizzazione dell’oggetto portato in esterno; l’idea è stata quella di trasformare un oggetto per interni (letto a castello) in una unità abitativa (architettura).
F.Ma. Una parte del tuo lavoro, quella che precede la costruzione dell’opera, si affida molto all’intuizione nel reperimento dei materiali costitutivi, che nella quasi totalità dei casi sono materiali di recupero. Che caratteristiche deve avere l’oggetto piuttosto che il frammento di video scaricato dalla rete per essere di tuo interesse?
F.Me. L’incontro con un oggetto preso dalla spazzatura o da un rigattiere ha una natura spesso ambivalente, in alcuni casi è lui stesso a suggerire il lavoro altre volte è l’esatto contrario. Nello specifico sono attratto da oggetti in cui è presente una forte struttura lineiforme che mi è utile per creare un sistema di relazioni tra i punti di forza dell’oggetto e lo spazio architettonico che lo ospita. Mi interessano le tecniche di realizzazione e le attitudini alla creazione di nuove forme. In questo senso qualsiasi manufatto realizzato dall’uomo può essere usato e rielaborato qualora sia utile a esprimere una forma un concetto che in quel momento sto ricercando. A volte questi oggetti smontati e riutilizzati in alcune delle loro parti diventano architetture autonome.

F.Ma. Negli ultimi lavori sembra ritornare al centro dei tuoi interessi il cartone, materiale che hai utilizzato molto in passato per delle serie scultoree come quella delle piante grasse presentata anche all’interno della personale “Noli me tangere” (2008) all’atelier di Patrizia Pepe. Adesso ti vedo però più interessato alle sue caratteristiche processuali, al suo particolare modificarsi in corso d’opera che alle sue proprietà estetiche. Questo utilizzo mi ricorda i lavori dove era il legno a essere messo sotto sforzo e indagato nelle sue proprietà costitutive e potenziali.
F.Me. Il cartone è un materiale che mi è sempre piaciuto per la sua natura domestica e per la sua estrema facilità nell’essere lavorato. Negli ultimi lavori lo utilizzo in fogli sempre della stessa dimensione come un elemento modulare che, assemblato con altri, è capace di coprire delle grandi superfici, di adagiarsi o deformarsi su delle strutture rigide e inospitali. Le sue proprietà semirigide mettono sempre in bilico chi lo usa per costruire delle forme, tra quello che si è fatto volontariamente e quello che il materiale fa da sé inevitabilmente; seguendo le sue proprietà fisiche tende a distendersi, a porsi in orizzontale come un tappeto che avvolge e determina lo spazio.
F.Ma. In un momento del tuo percorso avevi acquisito una cifra stilistica caratterizzata dall’uso di fascette di plastica soprattutto nere, utilizzate per assemblare i lavori scultorei. Nelle ultime opere non se ne trova traccia. Come riesci a rimettere continuamente in discussione il metodo di lavoro, o meglio, quanto ti costa eliminare un elemento che ti ha rappresentato per continuare a evolverti? F.Me. Non riconosco quasi mai nel materiale una cifra stilistica e utilizzo quello che in quel momento mi sembra più idoneo per materializzare un concetto; incomincio a lavorarci sopra, magari anche per un lungo periodo, esplorandone più a fondo possibile le capacità espressive. Come in un processo artigianale le tecniche e i materiali ritornano ogni qual volta ritengo possano essermi utili.

F.Ma. A cosa stai lavorando in questo momento?
F.Me. Sto sviluppando dei progetti sonori, delle tracce audio, registrazioni di suoni di oggetti o materiali, come rotture e scricchiolii, miscelate a dei loop sonori scaricati. L’esperienza di Clues (2008) a Mega+Mega ad Arezzo è stata in questo senso molto importante.

F.Ma. Lo studio che condividi a Prato con l’artista Raffaele Di Vaia (http://studiomd.altervista.org/) è stato spesso trasformato in spazio espositivo di opere vostre e di altri artisti, in occasione di aperture speciali al pubblico, manifestazioni e mostre collettive, come “Open studio”, “Versus” e “Corale10”. Dove pensi possa portare un’attività curatoriale, organizzativa e promozionale di questo tipo?
F.Me. Il modo di concepire le esposizioni negli ultimi anni sembra cambiato da un modello chiuso autoreferenziale proposto da gallerie e musei a uno più aperto fatto di scambio tra artisti e di relazione con il territorio. Anche per questo ultimamente si stanno moltiplicando gli spazi gestiti direttamente dagli artisti così da creare un valore aggiunto e una possibile alternativa rispetto ai luoghi normalmente deputati all’arte e riportando al centro della discussione l’autonomia nelle scelte operate dall’artista, che così può tornare a essere un elemento attivo del processo e non solo uno che subisce le logiche del mercato, della galleria e del museo istituzionale. Noi abbiamo sempre pensato allo studio come un luogo di incontro e scambio, un luogo dove far vedere il nostro lavoro e confrontarlo con quello di altri o dove proporre dei progetti particolari che non trovano spazio altrove. Per questo finche lo riterremo interessante e piacevole continueremo questo tipo di attività.


CORALE 10 O DELL’ARTE DEL CONTRAPPUNTO

di Francesco Marmorini

Per sua natura, la parola corale dovrebbe rimandare alla funzione armonica di diversi elementi che attraverso le proprie particolari caratteristiche partecipano alla produzione di un risultato unico. Portare a compimento una giornata o per estensione un’esistenza, arrivare a vederne la conclusione, comporta un impegno corale di un insieme di azioni che ne organizzano la struttura, spesso incoerente, incostante, schizofrenica, benché nel complesso armonica e quindi, potremmo azzardare, polifonica. Il compiuto è portatore di senso come di non senso e il contrappunto è la tecnica che permette di conciliare melodie e ritmi, di ridurre le distanze e omogeneizzare. La quotidianità intuisce una sua possibile giustificazione armonica nella struttura della polifonia e Corale 10 si trova a descriverla tramite la tecnica del contrappunto.

C’è il lavoro, inteso come frenesia autoreferenziale, attività quasi psicotica, dove invece di nobilitarsi l’uomo si annulla, come a rincorrere la propria ombra. Nell’animazione Due balle di Giada Giulia Pucci la dispersione entropica è alta, non c’è guadagno di alcun tipo e i materiali poveri utilizzati contrastano con lo spreco di energie rappresentato. Il paesaggio segnato dal lavoro è invece il tema dell’elaborazione fotografica di Paolo Meoni : in Stream i paesaggi industriali delle periferie pratesi si sovrappongono in un magma inestricabile di segni e l’attività dell’uomo diviene un tentativo impossibile di tenere il passo della velocità con cui il territorio si modifica.

Riposo e contemplazione delle idee sottendono Pistis Sophia di ch.Rindler , affissa alla parete interna della porta del bagno come una locandina pubblicitaria. La sagoma fantasmatica di un invitante corpo nudo femminile ironizza su un caposaldo della tradizione gnostica, come la ricerca della conoscenza che viene resa appetibile alla stregua di un prodotto di consumo.

La narrazione prevede anche descrizioni di micro avvenimenti, come nell’intimo racconto di Chiara Guarducci , organizzato a formare una personalissima Mappa tonalmente orientata e composta da oggetti, ambienti e situazioni che restituiscono un possibile percorso empirico e immaginifico di una/molte quotidianità. Greta Matteucci invece impasta le proprie e altrui narrazioni in racconti della durata di Ventiquattrore . Il testo esposto non si adatta a una lettura comoda, ma vuole essere consultato in fretta, in piedi, quasi contrapponendosi al lento registrare manoscritto dell’artista. Il racconto diviene ricordo remoto nel caso del video Venere di Raffaele Di Vaia , dove un aneddoto legato all’infanzia materna, a lungo interiorizzato, viene trasfigurato sopra le note di un’aria della “Norma”: la vanità è demoniaca e si manifesta sotto forma di un sagoma indefinita nel raggelante riflesso dello specchio.

Di altra natura è il riflesso fermato in Closing eyes concerto di Leonora Bisagno . Una foto della/nella foto, dove un singolo e anonimo dettaglio genera un’ipotesi di conversazione tra l’immagine originaria e la sua riproduzione alla ricerca di un paradosso temporale. C’è dialogo anche nell’altro lavoro dell’artista A roman love for Joe Green , che si attorciglia e sviluppa intorno all’austero busto di Giuseppe Verdi da sempre allocato nella sala da ballo della Corale. È l’irruzione di un altro busto quasi anonimo, una copia romana, a far saltare l’a-temporalità della composizione e a stimolare nuove connessioni tra realtà e finzione, distacco e affetto e sorprendenti rimandi generazionali.

Franco Menicagli si serve di objects trouvés, siano essi frammenti materiali o video disponibili online per riflettere sul gioco, o meglio sulla dicotomia costruzione/distruzione, che ne garantisce il perpetuarsi. La scultura senza titolo di frammenti di sedie e ostacoli da atletica domani sarà altro, così come i castelli di carte del video cardstacker vengono distrutti dai loro creatori. Il tempo scorre, ma solo per il giocatore o, in questo caso, per l’artista, mentre le opere tornano in un constante fluire.

Una riflessione introspettiva sulla creazione artistica è invece quella di Francesco Carone , che utilizza oggetti comuni ai quali attribuisce un forte valore metaforico: il precario equilibrio di una lampadina a incandescenza stretta in una morsa rappresenta bene il raggiungimento del punto centrale e immobile, quanto precario, di ogni processo di ricerca. Speculativo e quasi speculare è infine root #2 la scultura finto-corallina di Filippo Frosini che, senza un inizio né una fine, un prima e un dopo, sembra galleggiare nutrendosi di aria. A un’osservazione scientifica segue una libera e rizomatica interpretazione evolutiva dai risultati spiazzanti e preziosamente inaspettati.

Gioco e lavoro, narrazione e dialogo, contemplazione e speculazione, non esauriscono, ma si rendono indispensabili per garantire, con le necessarie dissonanze, il quotidiano. Niente si accorda perfettamente in realtà, tutto procede per tentativi e anche la razionalità compositiva del contrappunto alla prova dei fatti risulta solo come parte di una complessità imperfetta. Eppure questo frammento di coerenza costruito sull’incoerenza ha una sua capacità di stupire a patto che di esso si riesca a cogliere l’aspetto d’insieme, polifonico e corale.


Corale 10

Comunicato Stampa

StudioMD Via Santa Trinita 77 Prato

In occasione della quarta giornata del contemporaneo, promossa da AMACI e Museo Pecci di Prato, lo studio MD presenta la mostra collettiva “Corale 10″. Gli artisti invitati sono: Leonora Bisagno, Francesco Carone, ch.Rindler, Raffaele Di Vaia, Filippo Frosini, Chiara Guarducci, Greta Matteucci, Franco Menicagli, Paolo Meoni, Giada Giulia Pucci.

La mostra “Corale 10″ comprende installazioni site specific, opere video, fotografie e sculture dislocate negli spazi dello studio MD e nei locali della Corale Verdi, rispettivamente al secondo e al primo piano dello storico palazzo di Casa Rubieri a Prato.

La mostra sarà accompagnata dal contributo critico di Francesco Marmorini.

Inaugurazione sabato 4 ottobre dalle 17 alle 24.

La mostra sarà visitabile fino al 12 ottobre su appuntamento.


Flashart n. 203 agosto settembre 2008

Arte e Critica n.55 giugno agosto 2008

SEEK REFUGE

insediamenti precari/ in /luoghi di transito

www.seek-refuge.com

Sabato 13 settembre a Venezia si aprirà la mostra evento Seek Refuge con la partecipazione di un nutrito gruppo di artisti internazionali:

Alek O., Francesco Arena, Marco Bernacchia, Donatella Bernardi, Andras Calamandrei, Michelangelo Consani, Oppy De Bernardo + Luigi D’Eugenio, Al Fadhil, /barbaraguerrieri/group, Adelita Husni-Bey, Salvatore Licitra, Luca Lo Coco, Franco Menicagli, Maurizio Mercuri, Mickry 3, Luca Minotti, Gianni Motti, Aldo Mozzini, Sergio Racanati, Camilla Sala, Tarshito, Federica Tavian + Gonzalo Laborra.

Seek Refuge è un’esperienza di aggregazione basata sulla convivenza con pratiche artistiche all’interno di un campeggio. Seek Refuge (dall’inglese, cercare rifugio) è un’esposizione di arte contemporanea che nasce da una idea di Filippo Borella ed Enrico Cazzaniga ed è a cura di Marta Casati e Riccardo Lisi.

La stampa e il pubblico dell’arte è invitato alla conferenza stampa di presentazione:

Venerdì 27 giugno alle ore 14.30 all’Accademia di Belle Arti di Venezia, in Fondamenta Zattere allo Spirito Santo, tra la Fondazione Guggenheim e la Punta della Salute.

Ringraziamo in anticipo per la partecipazione e la diffusione delle informazioni sull’evento Seek Refuge.

info:

Marta Casati – martellarte@libero.it

Riccardo Lisi – ric.lisi@gmail.com

www.seek-refuge.com


Strain Gage

di Antonio Grulli

L’elemento che mi ha più colpito sin dalla prima volta che ho osservato un lavoro di Franco, e tuttora continua a colpirmi, è l’utilizzo nella maggior parte delle sue opere di fascette di plastica da elettricista. Un oggetto economico, all’apparenza banale, che potrebbe essere visto come antiestetico nelle realizzazioni di molti artisti ma che in queste opere è in grado di diventare elemento portante; in tutti i sensi. Innanzitutto da un punto di vista strutturale, in quanto gli elementi delle sculture di Franco Menicagli (materiali come listelli di legno, tubi metallici, parti di vecchi mobili, ecc) sono per lo più tenuti insieme proprio da queste fascette. Ma al tempo stesso la loro presenza sottolinea questi punti critici e ne aumenta la potenza: le forze interne alle strutture create dall’artista sono tenute a bada e, a livello visivo, la compressione data dalla fascetta stretta in un singolo, piccolo punto crea un aumento di energia che si riverbera su tutto il resto della struttura. Il loro stesso aspetto simile a pungiglioni o a lunghe spine (i “baffi” non vengono mai tagliati anche se strutturalmente inutili) rafforza l’idea di criticità del punto in cui sono posizionate.

Credo quindi che questo elemento sia esemplare di tutto un lavoro basato soprattutto sui concetti di tensione, di trazione, di equilibrio, di compressione, di flusso di energia. Ecco il perché di un titolo come Strain Gage ; lo strumento che misura la deformazione e la dilatazione dei materiali da costruzione attraverso uno specifico congegno elettrico, costituito da un particolare tipo di sensore utilizzato per rilevare le deformazioni fisiche di un corpo sottoposto a sollecitazioni meccaniche.

Titolo che potrebbe essere parafrasato anche in Strain Cage visto che talvolta queste sculture assumono la forma di gabbie volte a proteggere e chiudere elementi come un tubo di acciaio lucido o la gamba di una sedia. Gabbie che richiamano alla mente anche strane protesi ortopediche. L’opera infatti sembra spesso partire da uno spunto (che puo essere un frammento di mobilio trovato in una discarica ad esempio) del quale nel risultato finale emerge sempre la componente organica, antropomorfa, al quale poi l’artista ha aggiunto una sovrastruttura. Oggetti che all’interno di queste gabbie strutturali appaiono fragili e da difendere.

La similitudine delle protesi è data anche dalla relazione con il concetto di energia e equilibrio. Un particolare di un lavoro in mostra mi ha riportato alla mente l’immagine di Pistorius, l’atleta dotato di protesi ortopediche nella parte inferiore delle gambe che da anni lotta per poter partecipare alle olimpiadi di Pechino. È evidente che questo caso ha raggiunto notorietà mondiale non solo per il dibattito sul processo di integrazione delle persone disabili, ma anche (e soprattutto ritengo io) per la particolare magia data dalle immagini di quest’uomo che corre su due esili lingue metalliche capaci di sprigionare, con grande eleganza, un’enorme energia appoggiando in un solo piccolo punto al suolo. Un’immagine difficile da cancellare dalla memoria.

Negli ultimi lavori, come già abbiamo accennato, si è aggiunto al vocabolario dell’artista anche l’utilizzo del tubo di acciaio lucido. È il caso anche delle tre opere esposte in questa mostra. La rigidità di questo elemento dialoga per contrasto con i morbidi e flessibili lunghi listelli di legno e con gli organici pezzi di mobilio; al tempo stesso il suo essere specchiante crea una smaterializzazione del pezzo di acciaio stesso.

Il tubo di metallo poi, incorporando al suo interno il listello di legno, riporta rigidità in un punto dell’opera in cui vi sarebbe stata una flessione. In tal modo all’interno delle dinamiche di equilibri, flessioni, tensioni subentra una componente di frizione e disagio.

Questi lavori sono vicini e confinanti anche con il linguaggio e la pratica architettonica, comprendendo una relazione con lo spazio e il corpo umano. Il lavoro all’ingresso della galleria ad esempio ci costringe a doverci relazionare con il proprio corpo cirgumnavigandolo continuamente per osservarlo ma anche per uscire e entrare dalla stanza. È un oggetto tentacolare che misura la stanza diventando a sua volta ambiente.

Lo stesso mondo dell’architettura utilizza sempre più spesso elementi modulari per la creazione di ambienti. Durante l’ultimo salone del mobile di Milano, all’interno della Galleria Vittorio Emanuele è stato creato un enorme padiglione-igloo fatto di 1100 hula-hoop bianchi tenuti insieme da 10000 fascette di plastica da elettricista, progettato da Minsuk Choo (www.massstudies.com), e che ha ospitato al suo interno dibattiti, conferenze, proiezioni.

Al tempo stesso il lavoro di Franco Menicagli è comune al percorso di molti artisti che partendo da pratiche come la scomposizione e rielaborazione di elementi portano avanti un proprio personale percorso di ricerca confinante con il design, l’architettura e la questione dello spazio in rapporto al corpo umano; ad esempio due artisti come Martin Boyce e Bjorn Dahlem.

In un suo testo Liam Gillick spiega come possa essere interessante e utile guardare al lavoro di un artista anche attraverso il luogo in cui è solito acquistare, o procurarsi, i materiali per le sue opere. Questo trucco è perfetto nel caso di Franco Menicagli, il quale ha eletto a proprio serbatoio di acquisti luoghi che sono un simbolo degli anni in cui viviamo. Negozi come Castorama, Brico Io, Le Roi Merlin, punteggiano le periferie delle nostre città e sono diventati fondamentali all’interno del nostro stile di vita. Soprattutto in un momento in cui il Do It Yourself sembra essere la prassi comune. Da questi luoghi escono i materiali alla base dei lavori: la fascetta da elettricista, il listello di legno e il tubo metallico. A questi si aggiungono gli oggetti trovati abbandonati per strada o nelle discariche. Non è forse diventata un’abitudine sempre più comune, per arredare la casa economicamente, realizzare da soli i propri mobili o recuperarli tra i tanti abbandonati ancora in ottimo stato vicino ai bidoni della spazzatura? Anche in questo modo, e non solo con l’attualità delle forme, un artista riesce a creare non solo nuove immagini ma anche dispositivi capaci di farci leggere in maniera critica la società in cui viviamo ogni giorno.


Strain Gage

Comunicato Stampa

Franco Menicagli presenta il nuovo progetto ‘Strain Gage’ per la mostra personale curata da Antonio Grulli, presso la Galleria Nicola Ricci di Pietrasanta. Sarà esposta un’ installazione site specific, appositamente concepita per lo spazio della galleria e una serie di nuove sculture. Il filo che unisce le opere è Strain gage (gauge), strumento che misura la deformazione e la dilatazione dei materiali da costruzione attraverso uno specifico congegno elettrico costituito da un particolare tipo di sensore utilizzato per rilevare le deformazioni fisiche di un corpo sottoposto a sollecitazioni meccaniche. L’estensimetro, per l’appunto, esemplifica le possibilità intrinseche delle sculture di Menicagli di stringere e dilatare relazioni tra più oggetti o tensioni creando zone di compressione ed estensione che in qualche modo si fanno carico dello spazio che li ospita. Il lavoro dell’artista, come sempre, consta di una predilezione per materiali semplici, precari, mossi sull’orlo di una rottura, inclini a un cedimento o ad un rigetto e che suggeriscono il senso di una gestualità mai appagata, sempre in divenire, quasi già prossima.

L’artista ha preso parte a numerosi eventi espostivi, tra questi ricordiamo: 2008 Strong End Weak End nella Città che Sale, Prato, a cura di Pier Luigi Tazzi. Trade Mark Galleria Daniele Ugolini Contemporary, Firenze, a cura di Gaia Pasi. Noli Me Tangere, Patrizia Pepe, Capalle, Firenze, a cura di Alessandro Sarri. Clues, centro arte contemporanea Mega + Mega, Arezzo, a cura di Francesco Marmorini; 2007 Shell-Like, Albertoaperto, Milano, a cura di Alberto Mugnaini. Abitanti Ambienti , Galleria il Ponte, Firenze a cura di Silvia Lucchesi; 2006 Ginnasio Project Window, Trevi Flash Art Museum, (PG) a cura di Maurizio Coccia. Godart 06, Museo Laboratorio, Città sant’Angelo (PE) a cura di Enzo De Leonibus; 2005 In Luogo, Fondazione Southeritage (Matera) a cura di Angelo Bianco. Senza lavoro, lavoro senza, ex Ospedale di San Giacomo (Carrara) a cura di Angelo Capasso in collaborazione con la Galleria Nicola Ricci Pietrasanta; 2004 Venezia Immagine-Retentiva, Padiglione Italia, Giardini di Castello Venezia. a cura di Raffaele Gavarro. Gemine Muse, Giovani artisti nei musei d’Europa. Firenze Palazzo Pitti, Museo del Costume, a cura di Maria Antonia Rinaldi.


Clues

FINCHÉ C’È SPAZIO C’È SPERANZA

di Francesco Marmorini

Il frammento si sviluppa per innesti, si espande ignorando il proprio passato, muta di ruolo, sposta il baricentro, cede a tentazioni asimmetriche, violenta i suoi limiti. E’ quel che resta di un oggetto mutilato da un trascorso violento o da un’azione disgregante e si manifesta inizialmente come parte di un tutto potenzialmente ricostruibile attraverso indizi formali. Una spalliera di metallo e una gamba di legno, potrebbero suggerire un recupero analogico, una possibile operazione di ricostruzione, una restituzione dell’oggetto originario, procedimenti che caratterizzano però più l’attività di un restauratore che quella di un artista. Franco Menicagli sceglie accuratamente i frammenti sui quali intervenire, li pondera e cerca di instaurare con essi un rapporto empatico, li addita come segni, fatti, situazioni, sicuramente definibili nella loro molteplicità come indizi, non in quanto utili a ricostruire un qualcosa che è stato, ma perché atti a comprendere le possibilità inespresse dell’oggetto del quale facevano parte. Menicagli cerca di restituire dignità d’insieme a una parte di esso pur senza riconoscergli storia e provenienza ed evita di interessarsi al suo passato; ne riformula le caratteristiche formali servendosi di uno sguardo visionario; lo rende indipendente da definizioni linguistiche, vecchi significanti e ruoli archetipi per consentirgli di liberare energie e tensioni nuove. Così gli oggetti germogliano, crescono, ma anche si incarniscono, si incagliano e a volte capita che si spezzino alla ricerca dei loro limiti estremi nella conquista dello spazio. Ritrovamenti, intese visive e incontri rappresentano i primi passi per accogliere quello che resta di una sedia, di un tavolo, di un mobile ed espanderlo usando assicelle di legno addomesticate e fissate con delle fascette di plastica. Il processo di invenzione formale è fortemente connesso a un procedere manuale, che avviene in condizioni quasi pre razionali, dove la riflessione lascia posto all’intuizione esaltando il potere del gesto. Sono suggerimenti spaziali che si legano l’uno all’altro in quanto dipendono ognuno dalla scelta effettuata in precedenza, intuizioni lineari che sottendono costruzioni ambiziose, soluzioni estreme dove il legno, portato al limite delle sue capacità di flessione, viene messo sotto sforzo. Lontane dall’essere rilassanti, le composizioni trasmettono un equilibrio instabile scaturito da rapporti di tensione estremamente precari che potrebbero saltare da un momento all’altro. I frammenti di uno stesso oggetto o di oggetti diversi arrivano a dialogare tra loro attraverso percorsi imprevisti non contemplati da chi li ha concepiti per la loro originaria funzione. L’artista riesce così, in assenza di un disegno progettuale predefinito, a individuare volumi inediti che suggeriscono possibilità di infinite forme. Questo farsi in corso d’opera determina l’aspetto non prevedibile dell’esito del lavoro che ha ormai abbandonato un precedente stato protesico, dove le stecche di legno componevano impalcature allo scopo di definire i confini degli oggetti con una funzione quasi di sostegno, pur lasciando trasparire sviluppi futuri diversi e imprevedibili. Dalla più pesante gabbia Menicagli è adesso passato a tracciare contorni con legni dolci e flessibili bloccati dalle fascette, il cui uso immediato e veloce permette di improvvisare meglio il lavoro e di porre l’accento sulla componente gestuale del fare. Un’evoluzione che ha permesso di alleggerire i volumi e sottrarre i frammenti di partenza a una tutela assistenziale e protettiva da parte della struttura. I lavori, adesso, una volta fissata l’ultima fascetta sono autonomi e liberi di decidere della loro resistenza o rottura, l’artista cessa di farsene carico, li consegna alla storia dell’arte e si può dedicare alla ricerca di altri indizi.


Noli Me Tangere

di Alessandro Sarri

Divino è l’esser-verme del verme, l’esser-pietra della pietra.

Giorgio Agamben

Non vi è turbamento fondamentale del presente, cioè un fondo che capovolge e sovverte ogni misura, un divenir-folle delle profondità che si sottrae al presente?

Gilles Deleuze

Tutto ciò che si mostra nel lavoro di Franco Menicagli precede in qualche modo la presenza di sé che l’oggetto potrà anche fare di se stesso. L’oggetto si ostenta sempre immobilizzato, medusato diremmo quasi, dalla presenza a cui non accederà mai, in ciò che non è mai stato dell’essere sempre stato qui, come una chiusura lambita da una fuga sempre in fuga ( fugata ) in se stessa; nello stesso istante la traccia e ciò che la scongiura, l’immagine impossibile che segnerà per sempre la presenza di sé senza mai corrispondervi come alcun sé, non come cosa che differisce da se stessa ma come cosa che differisce in se stessa, in una ripetizione che ri-cade irrepetibilmente su se stessa, come ipostasi del distanziare stesso dal sé in sé, testimonianza di un evento accaduto altrove e quindi già intrinsecamente in lutto per una deposizione, che, magari, non si è mai compiuta attraverso un oggetto che, accogliendo senza sosta l’oggetto di sé, non ne trattiene che il vuoto, vuoto inteso qua come il vuoto d’oggetto e non come il vuoto dell’oggetto.

Si potrebbe sostenere che l’oggetto in Menicagli resta come immutato nel non essere mai stato presente in nessuna presenza, marcando un accadere che si pone sempre come una sorta di vestigia in divenire, dispersa tra “la visione e la visione ” ( Jean Luc Nancy), come intrattenimento infitto nell’apertura senza fine della visione stessa; evento coesistente piuttosto che corrispondente che non appare che scomparendo in presenza in una cosificazione di cui non si appropria mai, in una ritenzione primaria che assimila in sé ogni eventuale plastico, vedendolo, come conia in un bel neologismo Giorgio Caproni “asparire” come già consumato, già consunto dallo sprofondare immobile tra un “evento-limite senza passato e un presente-limite senza futuro”, scrive Henry Maldiney. Il carattere metastabile della comparizione sempre gravida di se stessa, in fase di trapianto di un oggetto che si ascolta sempre come aperto sul proprio bloccarsi insolubile nella sutura infettata della sua im-pressione tautologica, come registro simultaneo di visione in scorcio e di visione in sbarramento che non conosce più diritto e rovescio, ma in qualche modo inviluppa il diritto in rovescio e viceversa, in un ora e mai (più) stato che sovverte il suo stesso presente nella presenza ad un tempo inizio radicale e fine assoluta.

Un oggetto che scandisce un raggrumarsi più “fotonico che grafico”, come insiste Jean Luc Nancy: palesando non tanto un’ indicazione o un tracciato quanto piuttosto un assorbimento di emanazioni posturali che si scontrano per mezzo del vuoto (che sono), la cui apicalità altro non fa che mettere ‘in salvo’ l’anchilosi invulnerabile dell’oggetto prima di qualsiasi oggetto di cui potrà indicarne la presenza o addirittura l’assenza. Quanto si mostra si mostra mostrando il non mostrantesi del sempre già mostrato, o forse meglio, si mostra ammorbandosi e abbattendosi nella sua stessa oblazione, oggetto della propria irremovibile oggettualità più che della propria oggettività, in una presenza ritirata oscenamente in se stessa, saldamente al di qua di ogni intimità intransitiva che ogni oggetto verrebbe ad assicurargli, inserendolo in una specie di punto di vista che vorrebbe avvalersi di un oggetto sottratto, parcellizzato, e perciò sedimentato nella sua a(na)tomizzazione di significante.

L’oggetto di Menicagli, bidimensionale o tridimensionale che sia, divenuto in stasi o fissato in divenire che sia, si assume incontrovertibilmente senza scarti, dandosi integralmente prima di tutto ciò che lo significa, sopprimendosi nell’auto- slowburn della sua es-posizione prima e dopo il suo sopprimersi in qualunque esposizione, dandosi nell’impossibilità di darsi e di riceversi, rimandandosi al suo apparire nell’inattingibile implosione di sé, nel fuori che esiste in qualche maniera solo nel punto più internamente abusivo di sé, nella trasparenza a sé dell’esistere sempre fuori di sé, nel non riferirsi ad altro se non al proprio “apparire tra l’oggetto di sé che è sempre stato”( Martin Heidegger). Un oggetto così sprofondato in ciò che più propriamente (non) gli appartiene, come può appunto ‘mimetizzarsi’ in qualcosa, se esso non può non essere che ciò che si dà nell’apertura “ottusa di sé”, per usare un assioma barthesiano, ovvero nell’ingestione clandestina che imita solamente il proprio essere-sé senza nessun sé? Può l’identificazione identificarsi rimanendo come imbricata in sé, senza identità e senza identico? Può, il resto che l’oggetto è, essere nessun resto di sé’?

Ciò che oramai si potrebbe chiamare la cosa di Menicagli, non si potrà mai localizzare che in una atopia infrasottile che non sarà mai né propriamente esterna né propriamente interna e di cui non si potrà scorgere mai né il fuori né il dentro, ma forse soltanto il suo essere irrimediabilmente segregata nel libero dell’essere (per sé), che precede, qui, il possibile, come avvenimento o avvistamento del suo poter-essere, in favore di un abbandono in completa passività a quell’immagine che si fa essa stessa da se stessa: iponimia di una “meità” ( Henry Maldiney) che si costituisce mantenendo indefinitivamente aperto il limite che ne sigla l’indistruttibile finitudine attraverso il nucleo-refuso di ciò che in ogni cosa si annida di sé, nell’ “absenso” di cui parla Jean Luc Nancy, cioè nell’ irrecusabile implicitezza di sé, nella propria inesauribilità cosale in cui ciò che è avvenuto si riversa in ciò che è avvenuto.

Ogni sé della cosa non è infatti altro che un dar- si , la manifestazione al presente della presenza dissuggellata di sé al lavoro in ogni presenza come in ogni assenza: il già stato mai presente di sé nel fuori assoluto di sé -ma nella misura in cui questo fuori, questa ex-posizione è l’essere stesso all’opera infinita di sé, l’essere incoativo di un moto in sospensione levato verso un’articolazione o un proferimento ancora e per sempre senza teleologia e senza visione alcuna di significato, che si sottrae indefinitivamente nell’atto di esporsi in ciò che non farà mai alcuna comparsa di sé, nell’espropriazione del suo ” ritrarsi in proprietà ” ( Alfonso Cariolato). Si potrà, in ultima analisi, parlare di un oggetto intrinseco , in quanto non vi è nulla al di fuori del suo presentarsi nell’anonimia più singolarizzata di sé? Si potrà, infine, concepire un oggetto finito del suo senso in una esposizione senza accesso attraverso il buco nel quale ogni oggetto s’inabissa nella chiusura irreparabile da sempre esposta in superficie.


Noli Me Tangere

Comunicato Stampa

Patrizia Pepe, presenta all’interno dei propri spazi i lavori di Franco Menicagli.Inaugurazione Martedì 01 Aprile 2008 dalle ore 17.00 alle ore 19.00a cura di Alessandro Sarri, progetto Ronaldo Fiesoli

dal 01 Aprile 2008 al 01 Luglio 2008

Lun/Ven H 9.30/12.30 – 14.30/18.30

Via Gobetti 7/9, 50013 Capalle, Firenze – 055 87444.1

www.patrizia pepe.com

Noli me tangere esemplifica direi al meglio la personale che l’artista toscano Franco Menicagli terrà presso gli spazi espositivi di Patrizia Pepe a Capalle, a partire dal primo aprile fino al primo luglio 2008, a cura di Alessandro Sarri. L’idea dell’oggetto irriconoscibile, irrimediabilmente ambiguo e sfuggente connota da sempre il fare artistico di questo artista che, con modalità sempre differenti ma con intenti diremmo quasi compulsivi, indaga da sempre il confine sempre più labile che separa l’oggetto dalla sua irriconoscibilità. Lo fa attraverso l’intrusione diremmo dell’oggetto in se stesso, parassitato da listelle di legno e da fascette di plastica che, incessantemente dividono l’oggetto da se stesso, scomponendolo come a priori in un detour della dissomiglianza che infesta l’oggetto ancor prima di essere, come dire, trattato dall’artista. L’imperativo categorico del titolo vuol appunto sottolineare questa difficoltà di lettura di questa cosa che si sottrae incomunicabilmente ad ogni interpretazione di sorta. La sala principale ospiterà tre oggetti, tre modalità inesaustive di fruizione che proiettano queste ‘reliquie di visione’ attraverso tutto lo spazio come irrealizzandolo topologicamente. La saletta adiacente vedrà un piccolo video girato a Berlino dall’artista in cui un suonatore di strada, schiacciato su di uno sfondo a metà strada fra la fuga prospettica e il trompe d’oeil , sembra quasi ripetere la costitutiva ambiguità all’opera negli oggetti, tra ciò che si mostra e la propria impossibile coincidenza. Nella sala mensa infine, sarà ospitato un intervento più eminentemente metonimico che consiste, per mezzo di una sostituzione sul posto di oggetti con i loro doppi spettrali, nel far percepire la differenza intrinseca propria di ogni oggetto in ciò che al limite può anche non essere visto ma semmai solo respirato, dove la differenza non si pone più soltanto per se stessa, ma evapora appunto metonimicamente facendosi ambiente .


TRADEMARK

Daniele Ugolini Contemporary

a cura di Gaia Pasi

Christian Rainer, Franco Menicagli, Kuba Bakowski, Thomas Grunfeld

Opening : 16 febbraio, ore 18:00 / Finissage: 13 marzo 2008

Galleria Daniele Ugolini Contemporary è lieta di presentare il progetto TradeMark , una collettiva a cura di Gaia Pasi che riunisce i lavori dei quattro artisti Christian Rainer , Franco Menicagli, Kuba Bakowski e Thomas Grunfeld .

Il titolo della mostra insegue la caratteristica d’unicità che distingue ogni singola opera d’arte in un percorso dove i lavori per la loro comune caratteristica assemblativa e combinatoria di parti ed oggetti diversi, ridisegnano completamente il loro senso e la loro funzionalità. Si è introdotti da un guardiano il Misfit (Sennenhund) del 1996 di Thomas Grunfeld (1956) una strana creatura animale, col muso d’asino, il corpo di cane e la coda di cavallo. La bestia accucciata, non ci toglie mai gli occhi di dosso e vigila su ogni nostro movimento accompagnandoci con lo sguardo verso il resto delle opere in mostra. I Misfit di Grunfeld sono una sorta di chimere bestie mostruose ed improbabili che si forgiano di differenti sezioni animali imbalsamate.

Shell-like 10 (2007) e Shell-like 12 (2007) sono i due lavori di Franco Menicagli (1968) ossia due strutture che demarcano gli angoli della prima sala. Le Shell-like sono complesse strutture architettoniche di legno realizzate con pezzi di mobilio trovati in prossimità dei cantieri e nelle discariche. Assemblate fra loro queste parti non intendono ricostruire né la forma né la razionalità dell’oggetto originario ma concepire una nuova funzionalità estetica. L’oggetto è smembrato e in alcuni casi ricomposto in forme che suggeriscono tensioni ed estensioni, sottolineate con listelli di legno applicati, tenuti insieme e fermati da fascette di plastica. Quello che si evidenzia è il processo lavorativo nel suo farsi, sospeso e mostrato nel determinato momento della sua realizzazione che è in continuo divenire.

Con lo stesso gusto per l’incongruenza e il paradosso Kuba Bakowski (1971) presenta due lightbox della serie Ursa Major (2007) nei quali un gruppo di persone, regge in mano delle lampadine accese che ricreano la geografia stellare della costellazione del carro dell’Orsa Maggiore. Se questi lavori stupiscono per l’impressione che generano e le fattezze che le caratterizzano, Christian Rainer (1976) conclude il percorso parlandoci dello stupore in senso lato. Il video April Woods (2006) e lo still fotografico che lo accompagna, esplorano le possibilità di inversione e confusione di ruoli nel normale ordine delle cose.

Si instaura così un dialogo inedito tra cose che tra loro non comunicano nella normalità. Tutto e tutti, spettatori, animali, natura assistono al caos che li coinvolge, in attesa di conoscere la propria sorte e loro nuova ed eventuale identità. Gli interni e gli esterni dialogano grazie ad un continuo scambio tra loro, sino a generare dei paradossi che hanno la funzione di rileggere le consuetudini, intraprendere una ricerca ad uno stadio più profondo nel mondo sensibile, di un senso nascosto e in attesa di essere svelato.


Shell-like

Di Alberto Mugnaini

Il lavoro di Franco Menicagli si confronta con la fragilità, con l’effimera plasticità degli oggetti che contrassegnano il nostro abitare, apprestando una sorta di scheletro, ora segmentato e discontinuo, ora curvato ed elastico, in soccorso della residua carne delle cose, mutandone i punti di riferimento spaziale e mutando la capacità di relazionarci con esse. Gabbia e protesi, e allo stesso tempo visualizzazione e traiettoria di un movimento negato, questi listelli, quasi dei contorni aggiunti, si appiccano alle gambe, si assediano intorno agli schienali, svettano sui piani. Sottolineando assopiti dinamismi, completano l’oggetto nel momento in cui ne annullano la residua fungibilità: tangenti, archi, corde, materializzati come sostegno e armatura, ora ne integrano carenze e menomazioni, ora ne rimpiazzano equilibri e punti d’appoggio perduti. Rimodellano appiombi, recuperano posture, destrutturano assetti. Evidenziatori di gesti impossibili, estensori di una materia irrigidita nella dismissione di ogni possibilità di ulteriore uso, questi segmenti lignei sono raccordati al corpo declassato di questi ormai ex-oggetti con delle linguette in materiale plastico: escrescenza spinosa, ma anche punteggiatura, cospirazione di virgole nella dinamica dello spazio. Così Franco Menicagli spiega il proprio lavoro: “Questi elementi sono legati tra loro con fascette di plastica che stringono in un solo gesto le singole parti dell’intera struttura, evidenziando le linee di forza interne e le possibilità di collegamento e prolungamento esterne nello spazio.La distanza che separa gli oggetti viene così quantificata e allo stesso tempo annullata, l’intersezione delle linee ridisegna lo spazio fisico.Shell-like si compone di oggetti-sculture che si situano in una fase intermedia del loro divenire. Un costruirsi precario, in progress , potenzialmente estendibile all’infinito come un organismo in continua evoluzione, fermato in una delle sue fasi di trasformazione. Come molta architettura precaria si costruisce nell’imminenza di un gesto minimo ed efficace, utilizzando elementi di recupero, oggetti d’uso ed esemplificando una nuova funzionalità dell’agire.”


MY LAND. Seconda Edizione 2007

Teknemedia 28.08.2007

Autore: Francesco Marmorini

Un’operazione coraggiosa nella quale la funzione curatoriale viene sostituita da un allestimento partecipato, dove l’evento si alimenta di conoscenze e stima reciproca tra artisti locali e ospiti, e un intelligente coinvolgimento delle istituzioni porta alla riapertura per l’occasione di spazi cittadini chiusi da tempo. A distanza di cinque anni dalla prima edizione, organizzata nel parco dell’abitazione dell’artista Giorgio Brogi, My Land 2007 si presenta come una manifestazione dove la libertà di proporre, osare e credere in un percorso costruito dal basso pesa positivamente sull’esito finale. La manifestazione è concepita come una passeggiata attraverso il centro storico di San Miniato che ha inizio nella zona più alta della città, la Rocca Federiciana, durante la quale vengono toccati i punti adibiti a luogo espositivo. E’ proprio alla Rocca che troviamo Il nulla di Giorgio Brogi, due pannelli realizzati a specchio e colore che fissati su due convergenti pareti della torre comunicano a novanta gradi toccandosi con uno spigolo, e un binocolo utilizzabile dalla sommità per avvicinare il totem specchiante che lo stesso artista realizzò nella sua abitazione di campagna in occasione della precedente My Land. Le due installazioni a diversi chilometri di distanza tra loro entrano così in comunicazione instaurando una sorta di dialogo tautologico dove l’una rimanda all’altra in un gioco di specchi che riflette ciò che sta al centro all’infinito. E al centro stanno lo spazio e il tempo che separano le due My Land, due momenti distanti che adesso si fanno entrambi presenti, contigui, testimoni dell’esperienza dell’artista nella propria terra, dalla quale si va ma nella quale si torna, e in mezzo un tempo dilatato al punto da coincidere inversamente con il nulla. Interessante anche IWANNHN 1:1-3 di Federico Pepe, allestita all’interno della Torre degli Stipendiari, che scompone la frase biblica “In principio era il verbo…” in tante unita letterali che da significative in quanto costruttrici di senso vengono trasformate in significanti grafici.

Le forme estrapolate dal loro contesto lessicale permettono all’artista di elaborare griffe, loghi pubblicitari, marchi di fabbrica, e poste all’interno di minimali light box trasformano lo spazio in luogo consacrato al culto della comunicazione visiva trasferendo su un piano completamente diverso, anche grazie a una forte dose d’ironia, l’assunto di partenza. Altro lavoro di notevole spessore concettuale è Shell-like di Franco Menicagli, che in una ex cappella della Via Angelica mette in scena una improvvisazione tanto delicata, al punto quasi di negarsi alla vista, quanto estremamente pervasiva nei significati. Trovandosi di fronte ad un altare sostenuto da due colonnette di pietra serena, alla cui sommità è appeso un crocifisso ligneo privo di arti superiori, l’artista ha scelto di seguire un doppio binario. Servendosi di materiali visibilmente poveri come stecchette di legno dolce e fascette di plastica Menicagli ha creato delle mini impalcature come a sostenere idealmente le colonne e ha impacchettato il vecchio leggio inserito in una cavità dell’altare. Al suggerimento più immediato della sconsacrazione del luogo ne segue un altro, non razionalmente individuabile, che implica una sorta di intuizione pura: l’esaltazione delle colonne, le cui forme solide e portanti vanno a integrare l’immagine del Cristo restituendogli equilibrio e simmetria. Impossibile non segnalare poi al termine del percorso, all’interno del Conservatorio di Santa Chiara, i due lavori di Vittorio Cavallini e Enrico Vezzi accomunati da una soprendente, in quanto non concordata, ricerca sulla circolarità. Cerebrale Cavallini, che esprime in Nuovi moduli poetici il concetto: “Esiste un popolo talmente evoluto che riesce a vivere senza tecnologia” attraverso una scritta scorrevole al neon rossa filtrata da un ondulato di plastica verde disposto intorno in forma quasi circolare. Anche nel lavoro di Cavallini come in quello di Menicagli l’idea iniziale viene condizionata nel suo formarsi dall’improvvisazione, dalla scelta dei materiali e dal loro assemblaggio.

Tanto lucidi sono il pensiero di partenza e il mezzo luminoso attraverso il quale si è scelto di esprimerlo, tanto di segno opposto appare la scelta del materiale di confine/chiusura che acquisisce una circolarità approssimativa e quasi spontanea, come se risiedesse proprio in questa antinomia il vero senso dell’operazione. Sempre di circolarità, ma questa volta voluta, programmata e ossessiva, ci parla il video di Vezzi Al centro della terra dove una telecamera gira intorno all’artista, trascinata da un incedere sonoro incalzante di percussioni, riprendendolo nell’atto di abbracciare la sua compagna, avvicinando e respingendo i due corpi senza mai fermarsi. Così il titolo dell’opera entra in rapporto con il titolo di tutto l’evento e l’attaccamento alla propria terra dà forma ad un intero che dall’alto della torre federiciana domina tutto il paesaggio sottostante. L’unione intima di Vezzi con la sua appartenenza è quindi presa di coscienza della presenza dei vincoli affettivi che lo fanno uomo consapevole della sua posizione nel mondo, e quindi anche artista. Altri artisti invitati: Franko B., Matteo Bertini, Daniele Bordoni, Nicola Cioni, Nicola Di Caprio, Alberto Di Fabio, Paolo Grassino, Chiara Guarducci, Katia Orgiana, Lucio Perone, Marta Pierobon, Debra Werblud.


INLuogo

Intervista del curatore di in luogo Angelo Bianco a Franco Menicagli

Il progetto inLuogo si concentra su alcuni degli spazi nodali della città di Matera, individuati nelle piazze e nelle strade. Il progetto si pone come una riflessione sul ruolo attuale dell’arte negli spazi pubblici, su cosa si intenda al giorno d’oggi per pubblico? e su quale significato si possa dare alla nozione stessa di arte pubblica. Potresti riassumere la tua idea di arte pubblica?

L’arte pubblica ha per me la funzione di intessere relazioni tra le persone, i luoghi e l’arte, intesa come possibilità di produrre una riflessione e delle azioni nel contesto di trasformazione sociale di una determinata realtà .Oggi l’attenzione verso l’arte pubblica è legata alla necessità di rivedere gli spazi del vivere quotidiano in relazione al continuo mutarsi del paesaggio, degli spazi urbani e il modo in cui si interagisce in essi. Interventi di breve durata diffusi, su un vasto territorio, creano un network di possibili relazioni tra luoghi e necessità di espressione. La scultura monumentale caratterizza permanentemente un luogo e l’epoca che la produce, l’arte pubblica dilata le sue proporzioni dialogando con la storia e il tempo, mettendosi così in gioco con il divenire delle realtà presente, producendo strategie alla necessità di cambiamento.

A partire da un’idea di re-interpretazione del ruolo del monumento urbano, il progetto artistico si espande in un campo allargato di esperienza che coinvolge il territorio nel suo complesso (dallo spazio, alle relazioni con i suoi abitanti e con le attività produttive). Come definiresti il tuo intervento in relazione allo spazio ospitante, in termini di significato, funzione e fruizione? Come è nato il concept del progetto per la mostra inLuogo?

Per la città di Matera ho progettato un intervento che potesse ricreare un meccanismo di relazione tra volontà di costruire un luogo abitativo, espressa dall’architettura spontanea dei sassi e delle chiese rupestri e l’urgenza di costruzione comunicativa dell’arte. Da qui la possibilità di rivedere dei inLuoghi, come lo sono i sassi, portandoli fuoriLuogo, fuori dal loro contesto, per ri- avvicinarli ai suoi abitanti, riportandoli al confronto con la loro storia, la loro città; l’ossatura nuda, portante di questa struttura vuole porsi come riflessione riguardo al rapporto con il proprio ambiente e su tematiche relative alla conservazione e / o rivalutazione di queste grotte. La precarietà della struttura si lega inoltre alla temporaneità dell’intervento che vuole interagire con i modi del costruire quotidiano dettato da necessità tipicamente umane.

Quali sono i limiti, e quali invece gli stimoli, di un confronto con un territorio già fortemente caratterizzato dal punto di vista della tradizione e del paesaggio, come è quello di Matera inserito nella World Heritage List UNESCO?

I sassi e le chiese rupestri caratterizzano in maniera importante i modi di percepire questa città. I luoghi comuni, facilmente rintracciabili in una città come Matera, sono spesso oggetto di una visione turistica e talvolta superficiale. La questione del recupero dei sassi è cosa complessa e articolata. Quello che colpisce di queste costruzioni è l’energia fisica e l’inventiva di chi, spinto da necessità, le ha costruite. Il tema sociale dell’abitazione è oggi più che mai un’ urgenza mondialmente riconosciuta che lega le esigenze e bisogni di popolazioni diverse. La casa, la città, il paesaggio, il luogo di culto non sono solo luoghi fisici, ma assumono, per il cittadino che le abita, il carattere di identità, ossia una possibilità di contributo personale allo scambio e al dialogo tra culture.


Abitanti Ambienti

di Silvia Lucchesi

Riflessione su una collezione di ninnoli in era tecnologica.Sono strani esseri in ceramica e in carta di piccole dimensioni dalle sembianze animali e vegetali, si direbbero geneticamente modificati. Ci sono un rinoceronte con una testa di uccello al posto della coda, un cavallo con delle ali a cui sono attaccati dei missili, un sommergibile con zampe di rettile, un carroarmato e un aereo con ali di uccello, un elefante bifronte. E ci sono delle piantine all’apparenza normali. Ma a guardar bene le foglie non sono uguali fra di loro, da una stessa pianta vengon fuori escrescenze diverse, presentano malformazioni. Come fragili e immacolati oggetti di una improbabile raccolta fanno bella mostra di sé appoggiati in fila su delle mensole, conservati, catalogati quali rarità. Nel video, le mani guantate di bianco li puliscono con cura e attenzione passando da uno all’altro e ripentendo maniacalmente lo stesso gesto. La voce inconfondibile di Frank Sinatra canta My Way . Sia gli uni che le altre sembrano il frutto di esperimenti, abitanti di un mondo ribaltato in cui la tecnologia, segno massimo del progresso dell’uomo, è impazzita. E’ così che nascono questi ibridi che evocano l’industria militare e la biogenetica. L’artista osserva e propone la propria critica visione non priva di ironia.


Cantieri D’arte
Ridisegnare i luoghi comuni

Memorie deperibili

di Marco Trulli

Alterare, manipolare, ricreare spazi e luoghi intesi quali contesti di relazione sociale, non più come contenitori vuoti. Questi sono lo scopo e l’azione di Franco Menicagli.

A Viterbo l’artista toscano, attraverso un’attenta osservazione degli spazi urbani, sperimenta un intervento che intende scardinare la percezione abituale della città e dei suoi edifici, progettando degli elementi d’interferenza della quotidianità tesi ad attivare un processo di relazione, talvolta anche provocatorio, con il territorio ed il contesto sociale. Proprio partendo dall’analisi delle potenzialità latenti nell’attuale stato di abbandono di alcuni luoghi storici, Menicagli valorizza quel patrimonio di relazioni sociali e memorie urbane di cui gli stessi sono ancora intrisi. Ne ridefinisce le coordinate percettive attraverso interventi minimi, mirati a denunciarne ironicamente lo stato di oblio.

Torna attuale allora il significato del Grottino , installazione realizzata a Matera nel 2005. Una struttura essenziale, precaria, in cui gli abitanti sono indotti a sperimentare una relazione con il proprio spazio abitativo ricreato e decontestualizzato.Un modo di reintepretare questo rapporto al fine di riflettere sulla necessità di tutelare e valorizzare le abitazioni rupestri.

Seguendo questa sua attitudine ad operare in modo sensibile e coerente, l’artista toscano individua nel lavatoio del Cortile del Palazzo di Donna Olimpia e nella facciata della Chiesa di Santa Maria della Cella necessità di espressione finora sopite che, attraverso i suoi interventi site specific , riemergono all’attenzione pubblica. Attraverso un link concettuale infatti, Menicagli accomuna questi due luoghi, entrambi in passato di comune utilità, operando in essi una sorta di ri-funzionalizzazione sociale, riscoprendone la vocazione pubblica, l’appartenenza alla collettività.

Questi luoghi perciò emergono non più come spazi interstiziali del tessuto urbano, bensì come parte integrante di una proposta di riattivazione identitaria che si esplica mediante interventi antimonumentali, antiretorici, mirati però a cogliere le esigenze contemporanee degli spazi urbani dimenticati.

La precaria impalcatura installata all’interno del lavatoio, così come i palloncini predator fissati alla facciata della chiesa di Santa Maria della Cella, sono metaforicamente incaricati di difendere e sostenere, nonostante la propria effimera costituzione, strutture ormai in piena decadenza, site paradossalmente in spazi centralissimi della città.

Nel caso del lavatoio l’esile sostegno del legno fissato con lo scotch dovrebbe impedire un eventuale crollo, mentre i palloncini predator , usati in campagna come spaventapasseri, emulano ironicamente le minacciose rastrelliere che allontanano i volatili dal posarsi sui cornicioni degli edifici di rilievo storico. L’essenza deperibile degli interventi di Franco Menicagli testimonia la sua volontà di esprimere ” una posizione più democratica e meno invasiva del tessuto urbano della città contemporanea” lasciando così spazio, una volta formulata una proposta estetica, ad altri progetti e a nuove possibilità. http://www.overviewmag.com n.3 di Aprile 2006 pagg. 38-41